Le parole del setting ...

In questo spazio ti parlo di Psicoterapia. 

E lo farò partendo da alcune parole chiave legate a questo mondo: piccole "pillole" che potranno esserti utili per comprendere meglio cos'è e cosa si fa in Psicoterapia. 

 

Buona lettura!


       1. Decisione

 

La scelta di rivolgerti o meno ad uno psicologo non è sempre immediata, anzi. Insicurezza, paura, vergogna, diffidenza, confusione sono solo alcuni degli aspetti che caratterizzano il periodo che precede la decisione vera e propria.

Magari accarezzi l’idea da tempo, ma ti dici che non sei pazza/o e che, quindi, non sei tu ad aver bisogno di questo genere di professionista.

Oppure, sei consapevole di aver bisogno di un supporto per guardarti dentro, ma hai paura di sbagliare Persona, di restare delusa/o, di sentirti non capita/o per l’ennesima volta.

Ricordati che se decidi di rivolgerti ad uno psicologo non sei pazza/o, ma sei coraggiosa/o. Coraggiosa/o perché accetti di prenderti cura di te, di conoscerti davvero, di incontrarti profondamente. E questo è un atto di amore che va al di là della vergogna, della paura, o della confusione. Poi, non dimenticare che non sei da sola/o in questo viaggio: siete in due.

E, se non ti fidi, inizia ad “assaggiare” l’idea chiedendo magari dei riferimenti di professionisti a parenti e amici, in modo da capire chi ti troverai davanti prima di contattare lo psicologo in questione.

O, se non vuoi rendere nota questa cosa, fai un giretto su internet e guarda chi puoi trovare in questo grande mare virtuale: fidati di te stessa/o e del tuo intuito però. Ascolta in primis il tuo cuore mentre guardi quel volto, mentre leggi delle informazioni online, mentre vai a curiosare sul sito internet del professionista. Se ti fidi del tuo intuito è difficile che tu possa restare delusa/o, ma datti la possibilità di provare!

 

 


      2.  Telefonata

 

Quando hai preso la decisione di rivolgerti allo psicologo che hai scelto, ti verranno in mente mille dubbi rispetto a come presentarti, a cosa dire, a come porti durante la telefonata.

Magari sarai sciolta/o e diretta/o o, magari, ti tremerà la mano mentre componi quel numero di telefono.

Chi ci sarà dall’altra parte? Risponderà lui/lei o ci sarà una segretaria? Mi farà delle domande o mi rimanderà direttamente al colloquio senza chiedere nulla? Posso già chiedere quanto costa, o sembrerò inopportuna/o?

Queste e altre domande si affollano nella tua mente poco prima di comporre quel numero: se posso darti un consiglio, assecondale senza paura ma non ingigantirle! Sarà, poi, il professionista a cui telefoni ad accompagnarti in questa “partenza”.

Anche la telefonata e lo stile della comunicazione del professionista ti servirà per farti un’ulteriore idea di chi c’è dall’altra parte, e ti aiuterà a confermare o meno l’immagine che ti stai costruendo in testa rispetto a quella Persona.

Per dovere di cronaca, non pensare che ci sia un “copione” che il professionista segue durante la telefonata: tieni solo a mente che la prima telefonata non è un colloquio e, quindi, non dovrai metterti a fare un resoconto dettagliato di come stai o di cosa sta succedendo.

Potrai trovare il professionista che non ti chiede nulla e ti dà subito un appuntamento, quello che ti chiede solo per chi è la richiesta e qual è la difficoltà, o quello che ti fa domande più specifiche. Non c’è una cosa giusta e una sbagliata, ma la gestione della telefonata dipende molto dallo stile e dall’approccio del professionista, che non è giusto o sbagliato a prescindere in base a come si pone. 

Anche qui, di nuovo, ricordati del tuo cuore: mentre parli e ascolti le risposte di chi c’è dall’altro lato della cornetta ascolta il tuo cuore e il tuo istinto, in modo da sentire se hai chiamato la Persona giusta per te o no. Poi, sarà il primo colloquio a fare la differenza


            3. Incontro

 

Sei arrivata/o davanti alla porta dello psicologo che hai scelto: magari sei un po’ agitata/o o, forse, ti senti tranquilla/o perché hai finalmente superato lo scoglio della presa di decisione.

Il primo incontro è fondamentale per la costruzione di questa relazione: ebbene si, anche quella con lo psicologo è una relazione!

Anzi, spesso è una delle relazioni più intime e profonde della tua vita, se proprio dobbiamo essere precisi!

Durante il primo incontro (e, di solito, nei successivi 3 o 4) inizi ad “annusare” il professionista e la situazione in genere: le fasi conoscitive sono, per questo, molto delicate perché servono a te per capire se la Persona che hai davanti è quella giusta per te, e allo psicologo per capire quali sono le tue difficoltà e se è in grado o meno di poter lavorare insieme a te.

È vero che le prime fasi del colloquio sono interamente spese per descrivere quello che ti succede e perché sei lì, ma ti invito ad andare oltre e, soprattutto una volta uscita/o di lì, a fare attenzione a come sei stata/o in generale, a che impressione ti porti dentro di te una volta finito l’incontro.

Ci sono tutta una serie di indicatori non verbali che ti possono essere utili per confermare o meno la tua scelta. Sguardo, sorriso, postura, tono di voce del professionista, tipo di sensazioni che ti dà la stanza di terapia: questi sono solo alcuni degli aspetti che, per lo più in maniera del tutto inconsapevole, contribuiscono a rendere la tua prima esperienza con lo psicologo positiva o negativa.

 


      4. Obiettivi

 

Anche se, forse, nelle fasi iniziali di una terapia ti sembrerà di parlare a ruota libera senza avere una direzione vera e propria, la definizione degli obiettivi dovrebbe essere uno degli aspetti fondamentali delle prime battute di un percorso.

Definire gli obiettivi significa chiederti perché sei lì e cosa vorresti raggiungere nella tua vita.

Significa sia interrogarti su quali aspetti di te senti di dover migliorare, ma anche su quali saranno gli indicatori che, ad un certo punto, ti faranno capire che hai raggiunto una data meta.

Non ti immaginare di dover avere tutto chiaro fin da subito: il professionista ti accompagnerà in questa definizione, anche e soprattutto quando dici di non sapere cosa vuoi davvero e dove vuoi andare.

Gli obiettivi servono a te per avere chiaro qual è il tuo percorso e il tuo senso rispetto al fare una terapia, al professionista per strutturare il suo lavoro insieme a te, e ad entrambi per andarli a “misurare” nel corso del tempo per capire se il lavoro che state facendo è efficace o meno.

Ora, anche in questo caso non c’è un “copione già scritto”: la definizione degli obiettivi dipende molto dallo stile e dell’approccio del professionista che hai davanti. C’è chi è più schematico e preciso nel farti definire i tuoi obiettivi, chi è più generico e ti pone la questione in maniera meno diretta, chi apparentemente sembra non parlare in termini di obiettivi ma ti supporta lo stesso nel definirli e comprenderli. 

L’importante è che, di volta in volta, tu ti senta di libera/o di chiedere come funziona, di fare domande se qualcosa non è chiaro: sei e devi sentirti parte attiva e protagonista del tuo percorso. Non sei e non puoi essere un “fruitore passivo” di un qualcosa che ti viene propinato senza che tu possa decidere o avere voce in capitolo: e, se così fosse, questo è un indicatore molto importante per capire che quella data situazione non è giusta per te. 


5. Tempo

 

Il tempo è un altro aspetto importante nella psicoterapia.

Possiamo intenderlo sia come tempo della singola seduta, che come tempo del percorso in generale. E se sei disposta/o a non accanirti contro di lui può diventare un tuo grande alleato.

Spesso succede che la maggior parte della gente sia spaventata dall’immagine della terapia come un percorso eterno e senza uscita.

E' vero che non si può definire a priori la durata di una terapia, ma è anche vero che non è per forza interminabile.

Anzi, sarà dovere e responsabilità dello psicologo che ti segue valutare come sta andando il vostro percorso, anche alla luce degli obiettivi stabiliti, e ragionare insieme a te sul da farsi trascorso un certo periodo di tempo.

Ci sono determinati approcci che prevedono uno specifico numero di sedute per lavorare su una data difficoltà: il punto è che, se stai facendo un buon percorso, arriverai a toccare un livello di profondità tale che poi magari, risolta una questione, avrai voglia di andare su un’altra e via dicendo.

Questo per dirti che non puoi sapere né come sarà la tua esperienza, né quanto durerà.

Ricorda che non possono esserci cambiamenti o illuminazioni immediate, anzi diffida di chi ti propone questo scenario un pò "magico".

Come un bambino che ha bisogno di crescere e formarsi nella pancia della sua mamma, anche tu avrai bisogno del tuo tempo per lavorare su di te e su ciò che ti sta più a cuore.

Per quanto riguarda il tempo di ogni singola seduta, la riflessione che ti lascio è che dipenderà da te come lo sfrutti: proprio perché non ci sono obblighi o “copioni”, non ci sono delle cose da fare per forza nell’arco di quel tot di minuti che caratterizzano la seduta.

Il tempo è il tuo e lo gestisci come vuoi: detto in altri termini, sei tu a scegliere se parlare delle stagioni per la maggior parte del tempo e poi venire fuori con qualcosa di importante legato alla tua vita negli ultimi 5 minuti, o se usare meglio il tempo che hai a disposizione.

Anche qui, se usi la seduta per fare conversazione questo dice di te e delle tue difficoltà, e dovrebbe essere compito della Persona che ti accompagna andare a lavorare insieme a te proprio su questo.

 

 


6. Contratto

 

Sembra una “brutta” parola utilizzata in ambito terapeutico?! A qualcuno forse può apparire come un qualcosa di asettico, magari legato al mondo commerciale.

Prova a leggere questa parola come uno strumento di tutela che stabilisce dei confini.

Fare un contratto terapeutico significa mettere nero su bianco (ma spesso e volentieri avviene a voce) cosa si può fare e cosa non si può fare in terapia, quali sono gli obiettivi che ti prefiggi di raggiungere, qual è il tuo impegno in termini orari ed economici, e qual è la responsabilità del professionista in tutto questo oltre alla tua.

Il contratto è un accordo che serve a stabilire dei confini, uno tra tutti il segreto professionale, che vanno a tutelarti e a permetterti di sentirti al sicuro durante la seduta.

Adesso esagero, ma se non ti dicessi che se sei arrabbiata/o per qualcosa puoi esprimere la tua rabbia a parole ma non puoi distruggermi lo studio tu, forse, ti potresti sentire legittimata/o ad usare le mani o, ancora peggio, sceglieresti di non esprimere per niente la tua rabbia perché non sai se, fino a che punto e come può essere espressa.

 

Questo per dirti che spesso è importante dire e spiegare anche delle cose che sembrano fin troppo scontate ma che, se se ne parla, diventano più “normali” e non sono più coperte da un alone di mistero o di confusione. 


7. Alleanza

 

Prendi questa parola leggendola come una sorta di collaborazione profonda tra te e lo psicologo che ti segue.

In gergo si parla proprio di alleanza terapeutica, proprio a sottolinearne l’importanza e il valore curativo oltre che “gestionale”.

Iniziamo dal dire che l’alleanza non nasce sul pero, ma è un processo che si costruisce nel corso del tempo e che si evolve insieme alla relazione stessa.

Dentro l’alleanza ci sono aspetti legati al contratto di lavoro di cui abbiamo già parlato: siamo “alleati” nel momento in cui stabiliamo dei compiti reciproci e definiamo in modo esplicito quali sono gli obiettivi del nostro lavoro insieme.

Immagina che l’alleanza sia un qualcosa che ti aiuta a fare squadra, come se tu fossi nel team di una grande azienda, dove tutti lavorano insieme per un obiettivo comune.

Ma l’aspetto ancora più rilevante dell’alleanza è la fiducia: non mi posso alleare con te se non mi fido di te. E mi alleo con te se stabilisco un legame affettivo con te. Questo aspetto dell’alleanza è una delle componenti definite a-specifiche che possono permettere anche di prevedere il buon esito di una psicoterapia.

 

In altri termini, tanto più è forte il legame affettivo tra te e il tuo terapeuta, migliore sarà la prognosi del lavoro di psicoterapia che andrete a fare, e migliore sarà il “clima” che entrambi respirate all’interno della stanza. 


8. Fiducia

 

La fiducia è una componente molto importante in un percorso di psicoterapia.

Ha a che fare con la costruzione dell’alleanza, perché se non ti fidi non lavorerai davvero in accordo con il tuo terapeuta e non ti sentirai al sicuro.

Anche questo è un aspetto che si costruisce nel tempo: come in qualsiasi altra relazione, per arrivare a fidarti dovrai in primis imparare a conoscere l’altra Persona, e poi andare a “confermare” le ipotesi che ti sei fatta/o in merito.

Fidarsi in psicoterapia vuol dire credere che la Persona che hai davanti è li per te e per lavorare insieme a te al raggiungimento dei tuoi obiettivi. Che non sta mentendo, non ti sta manipolando, che ha un interesse vero e sincero per il tuo percorso, che ti ha a cuore.

E all’inizio, ovviamente, questo non è così scontato: dipende tutto dalla tua storia personale, ma anche e soprattutto dal “matching” tra le caratteristiche dello psicologo che andrai ad incontrare e i tuoi bisogni.

Come spesso accade, la fiducia è un qualcosa che viene “messa alla prova” prima di essere donata e, perciò, quella della fiducia è davvero una palestra di vita che potrai mettere in azione anche nella tua vita fuori dalla stanza di terapia.

In ultimo, ma non meno importante, in terapia dovrebbe pian piano venire fuori un altro tipo di fiducia: quella verso di te. Se non ti fidi di te stessa/o e del fatto che, in qualche modo, risolverai le tue difficoltà non andrai lontano. Se non impari a fidarti delle tue risorse, delle tue capacità, delle tue bellezze tutto sarà molto più complicato. 

E infatti, giusto perché tu lo sappia, uno degli aspetti su cui lo psicologo ti aiuterà a lavorare di più sarà proprio questo!


9. Ascolto

 

Questa parola deriva dal verbo latino “auscultare”, cioè sentire con l’orecchio. Quindi è vero che, di base, l’atto dell’ascoltare è un meccanismo fisico e organico, ma in psicoterapia l’ascolto ha dei connotati che vanno molto oltre il “prestare l’orecchio”.

Se ci rifletti, questa parola vuol dire dirigere l’attenzione: spesso, infatti, si fa la differenza tra il sentire e l’ascoltare, come a sottolineare proprio la differenza di intensità e intenzione tra le due azioni.

L’ascolto in psicoterapia è un processo in primis a carico del professionista: la capacità di un ascolto attivo e non giudicante è il prerequisito fondamentale per fare una buona psicoterapia. Diffida, quindi, da chi parla tanto e ascolta poco. Ma diffida anche da chi sente invece di ascoltare.

Ascoltare attivamente significa partecipare pienamente a quello che tu stai dicendo, prestando un’attenzione che va molto oltre le parole, pur partendo da esse. Significa ascoltare (e, possibilmente, poi rimandare) il tono emotivo di quello che stai dicendo, i significati che sono nascosti dietro le tue parole, il non verbale che accompagna quello dici.

Questo non per fare gli “ispettori gadget” della situazione pronti a scovare il colpevole: il punto qui è ascoltare per com-prendere, cioè capire e sentire la tua esperienza profondamente, facendoti percepire che non sei sola/o in questo viaggio.

Ma, aspetto assolutamente rilevante, l’ascolto ha a che vedere anche con l’attenzione verso te stessa/o: questa, di solito, diventa un’abilità “appresa” dopo un certo periodo che fai psicoterapia. Ascolto di te, delle tue emozioni, dei tuoi pensieri, dei tuoi significati, del tuo corpo: una risorsa fondamentale nel cammino della vita, che spesso tendiamo ad ignorare e non allenare perché è più facile mettere la testa sotto la sabbia.

 

Ecco che, quindi, la psicoterapia diventa una palestra non solo per fare l’esperienza di essere davvero ascoltati e compresi, ma anche per imparare a “regalarsi” da soli ciò che all’inizio si riceve dentro la stanza di terapia.  


10. Empatia

 

Possiamo definire l’empatia come una condizione relazionale di base in psicoterapia.

Essere empatici significa entrare nel mondo dell’altro, provando a vederlo come lo vede lui.

Vuol dire sentire le emozioni dell’altro come se fossero le nostre, mantenendo sempre la dimensione del “come se”.

Infatti, il confine tra simpatia ed empatia è tanto sottile quanto necessita di essere netto.

Per intenderci, un conto è sentire quello che l’altro sta provando e partecipare alla sua esperienza, sentendosi nello stesso tempo diversi e separati; altro è farsi trasportare totalmente da ciò che l’altro prova, perdendo in realtà il contatto con lui perché diventiamo troppo concentrati sul nostro stato emotivo.   

Esempio: se tu stai soffrendo perché hai perso una Persona cara io potrei anche commuovermi insieme a te perché sento dentro di me la tua sofferenza, ma non mi metto a piangere disperata perché magari il tuo lutto apre delle mie ferite rispetto ad altri miei lutti. In questo caso, io non sarei più concentrata su di te, ma su di me; non eserciterei l’empatia, ma la simpatia.

L’empatia non è, come qualcuno potrebbe pensare, una “tecnica”, ma devi vederla proprio come un modo di essere: se vogliamo proprio essere talebani, o ce l’hai o non ce l’hai! Dai, non voglio esagerare: possiamo dire che ci sono Persone più predisposte ad essere empatiche e altre meno, ma devi sapere che l’empatia può essere “allenata” giorno per giorno.

 

E la psicoterapia è una palestra anche per questo: attraverso l’empatia che ricevi dal tuo terapeuta, impari, pian piano, ad essere empatica/o a tua volta in primis con te stessa/o e poi con gli altri. Questo perché essere empatici ci permette non solo di perseguire un maggiore benessere psicologico personale, ma anche di stabilire buone relazioni con gli altri.


11. Relazione

 

Anche se può sembrarti strano, la psicoterapia è una relazioneDiversa da quelle che hai nella vita, ma pur sempre una relazione.

Una relazione è un rapporto che intercorre tra due Persone e, proprio per definizione, anche in psicoterapia stabilisci un rapporto con un’altra Persona.

Questo rapporto, come ogni rapporto nella vita, va costruito, “messo alla prova”, coltivato, magari anche messo in discussione ma, aldilà di tutto, è la base fondamentale per qualsiasi miglioramento interiore.

Del resto, la ricerca dimostra che la mente “nasce” e si alimenta proprio attraverso la relazione interpersonale, a partire dalle prime esperienze infantili.

Di conseguenza, il 90% del successo di una psicoterapia dipende proprio dal rapporto che instauri con il tuo psicologo (non lo dico io eh, lo dice la ricerca!). La relazione rientra, infatti, tra i fattori a-specifici che caratterizzano la psicoterapia e che, la maggior parte delle volte, sono responsabili del buon andamento o meno del lavoro.

Questo perché nella relazione, se è ben costruita, entrano in gioco delle componenti affettive molto importanti che ti permettono di fidarti di quella Persona, di stimarla, di sentirti legato a lei, di voler collaborare con lei. E, se ci fai caso, questi sono tutti degli aspetti che hanno a che fare con l’alleanza terapeutica.

Allora, ciò che ti deve servire quando entri nella stanza di terapia è anche capire come ti senti con quella Persona, cosa provi per lei, che “aria” respiri lì. Spesso, infatti, uno dei motivi per cui le terapie falliscono è proprio questo: non si entra davvero in relazione reciproca.

Ora, vero è che buona parte della questione dipende dallo stile del terapeuta, da quanto ha risolto o meno le sue ferite relazionali passate, da quanto è disposto ad avvicinarsi nel profondo a te. Ma, non dimentichiamocelo, il buon esito di questa relazione dipende anche da te e da quanto sei disposta/o a “lasciarti avvicinare” da un altro, con la fiducia che non ti farà del male.

Questo, spesso, diventa infatti uno degli obiettivi più complessi da perseguire all’interno della stanza di terapia: arrivare a sentire la relazione terapeutica un riferimento sicuro, scegliendo di affidarsi, ma rimanendo pur sempre un’individualità e non perdendo il centro di se stessi. Del resto, una buona psicoterapia dovrebbe rendere le Persone autonome e centrate, non dipendenti.

 

 


12. Esperienza

 

 

La psicoterapia è un’esperienza.

E possiamo definire esperienza una sorta di conoscenza che deriva da una “prova diretta” di un qualche elemento di realtà interna o esterna.

Il discorso è molto complesso e sono stati consumati fiumi di inchiostro a riguardo nel mondo della filosofia e della psicologia: ti basti sapere che la psicoterapia è un’esperienza di te stessa/o e dell’altro in relazione a te.

E, proprio in base all’esperienza che farai, potrai comprendere qualcosa in più di te ma anche e soprattutto della relazione con gli altri.

Fare esperienza ha, quindi, da un lato a che vedere con lo sperimentare delle cose nuove per uscire dalla tua zona di confort mettendoti alla prova; dall’altro “fare tesoro” di ciò che hai appreso durante l’esperienza stessa.

Quando parliamo di esperienza parliamo, per forza di cose, di esperienza soggettiva: non puoi pensare che l’esperienza che fai tu possa anche lontanamente essere uguale a quella che fa un’altra Persona. E questa può essere la lettura più interessante: in psicoterapia impari a fare esperienza di te, a metterti alla prova e a trarre le tue conclusioni sulla base di ciò che hai provato.

Potrebbe capitare che il tuo psicologo ti proponga degli esercizi immaginativi, corporei, o qualsiasi altro spunto “concreto” che ti possa aiutare ad esprimerti e ad avvicinare le tue ferite.

Una buona psicoterapia, infatti, ha la funzione di facilitare la tua esperienza, di permetterti di sperimentare e avvicinare le tue emozioni e i tuoi vissuti, di scegliere i tuoi significati a partire dall’esperienza che hai fatto e continui a fare nel viaggio della tua vita.

Infine, la psicoterapia è un’esperienza nel senso che ti dà delle “informazioni nuove” su chi sei e dove stai andando, confermando o mettendo anche in discussione le tue convinzioni passate. Avviene, cioè, quella che si chiama un’esperienza emozionale correttiva: attraverso una relazione affettiva “diversa” con il tuo terapeuta scopri nuovi aspetti di te e degli altri, impari un nuovo modo di entrare in relazione, “alleni” le tue capacità di rispondere alle crisi della vita.

Sentirti accolta/o, ascoltata/o e non giudicata/o da una Persona che in quel momento è lì per te ti darà, quindi, la possibilità di modificare non solo l’immagine che hai di te ma, soprattutto, quella cha hai degli altri e delle relazioni nella tua vita.

E ottieni tutto questo proprio “mettendo le mani in pasta”, facendo appunto un’esperienza diretta.


13. Insight 

 

Potremmo definire l’insight una sorta di “rivelazione”, un’intuizione improvvisa che arriva nel corso dell’esperienza della psicoterapia.

Spesso, infatti, parlando di una difficoltà e prendendosi la fiducia di provare le sensazioni e le emozioni che ci suscita, arriviamo come a vedere delle sfaccettature del problema che prima non avevamo considerato.

Ed ecco che arriva questa “rivelazione percettiva”, dandoci la possibilità di aggiungere altri tasselli al mosaico della nostra esperienza.

L’insight dovrebbe arrivare da dentro di te, non è un’interpretazione che viene “suggerita” dall’esterno: comprendere questo è molto importante, perché ti fa capire che una buona psicoterapia non è quella dove lo specialista ti spiega cosa ti succede e ti fa tutti i collegamenti.

Una psicoterapia efficace è quella dove, nel tempo, sei tu stessa/o ad avere gli insight e, quindi, a dare la tua lettura di te stessa/o e di quello che ti succede cammin facendo. Questo è possibile, ovviamente, grazie all’ascolto, all’empatia e all’accettazione che il tuo terapeuta mostra nei tuoi confronti.

 

E’ un po’ come dire che, pian piano, arrivi ad applicare a te stessa/o ciò che ricevi all’inizio solo da fuori. L’approccio e lo stile del tuo terapeuta “dirigeranno” il processo, nel senso che toglieranno i possibili ostacoli presenti nel tuo percorso ma, e questa è la cosa fondamentale, il lavoro di scoperta dovrai farlo tu con l’accompagnamento e il supporto dell’altro. 


14. Elaborazione

 

Uno dei compiti fondamentali della psicoterapia è proprio quello di facilitare l’elaborazione dei tuoi vissuti.

Elaborare significa, per certi versi, “digerire” un ricordo, un’emozione difficile, un vissuto, una difficoltà: quando il cibo entra in bocca è necessario masticarlo e ingoiarlo e, solo dopo, verrà digerito.

In psicoterapia funziona un po’ allo stesso modo: il terapeuta ti aiuta a “masticare” ciò che più ti crea difficoltà, con l’intento di avvicinarlo invece di evitarlo, per poi andare a trovare il tuo senso dentro di te (quindi ingoiarlo), per poi lasciarlo andare (cioè digerirlo).

Elaborare vuol dire “mettere un punto”, incasellare all’interno di una cornice di significato quello che ci fa stare male, in modo che pian piano perda la sua carica attivante. Questo avviene proprio perché ci siamo permessi di vivercelo fino in fondo insieme al nostro psicologo, affrontandolo prima di andare oltre.

 

Digerire significa chiudere con quella data cosa che ci crea difficoltà, in qualche modo “farci pace”: e tutto questo non è possibile se non passi dalla masticazione, e se non ti prendi la briga di perderci del tempo riflettendoci su. 


15. Attaccamento

 

Se andiamo brevemente a vedere cosa vuol dire questa parola, possiamo definire l’attaccamento una predisposizione innata a sviluppare dei legami significativi.

È innata perché nasce con il cucciolo d’uomo e, soprattutto all’inizio, ha proprio la funzione di favorirne la sopravvivenza.

Ora, l’attaccamento che il piccolo va a stabilire con la sua figura di riferimento può avere diverse caratteristiche a seconda di come si comporterà la Persona che si prende cura di lui.

Quello che il bambino ricerca nella sua mamma, o in chi ne fa le veci, è proprio una relazione calda, disponibile, protettiva e continua, ancora prima e al di là del fatto che possa ricevere anche del cibo.  

Ma non sempre le cose vanno così: spesso le figure di attaccamento non sono in grado di rispondere ai bisogni di conforto, sicurezza e rassicurazione emotiva del bambino e, in questo caso, si può strutturare un attaccamento caratterizzato da distanza, instabilità o non libertà.

Questo per dirti che il tipo di attaccamento che hai stabilito quando eri molto piccola/o per potertelo ricordare in maniera cosciente ha un’influenza sulle relazioni che hai oggi.

Influenza che può portarti, nella maggior parte dei casi, o a replicare in maniera puntuale e più o meno identica il copione che hai già sperimentato, o a distaccarti dal tuo copione passato, magari comportandoti all’opposto o in una maniera diversa rispetto a ciò che è stato prima.

Come si declina tutto questo in psicoterapia? Intanto la relazione che hai con il tuo terapeuta è una relazione di attaccamento e, proprio per questo, è il “teatro” all’interno del quale andrai a mettere in atto ciò che hai imparato dalle tue relazioni.

Nello stesso tempo, anche lo psicologo avrà la sua esperienza di attaccamento e, nella migliore delle ipotesi, si dà per scontato che abbia lavorato sulle sue ferite relazionali passate in modo da non “influenzare” con la sua storia il legame con te.

Passaggio fondamentale, quindi, è che tu possa fare esperienza in psicoterapia di una relazione di attaccamento “correttiva” rispetto alle precedenti, che vada pian piano a sanare le ferite che eventualmente ti porti dietro dal tuo passato.

 

Il terapeuta, quindi, diventa per te una nuova figura di attaccamento, creando una base sicura che ti permetta di procedere nell’esplorazione delle tue esperienze e dei tuoi vissuti, dandoti la possibilità di “disconfermare” i modelli insicuri di relazione acquisiti in precedenza. 


16. Accettazione

 

Spesso questa è una parola che risulta antipatica. Antipatica perché sembra che accettare voglia dire sopportare senza fare nulla, accontentarsi, soccombere o qualcosa di simile.

Nell’atto dell’accettazione, invece, si nasconde un profondo esercizio non solo di volontà, ma di potere personale.

In psicoterapia sperimenti un’accettazione che si muove su due canali diversi: ricevi accettazione ed eserciti accettazione.

Questo perché, in primis, l’accettazione è un altro di quei fattori aspecifici che vanno a caratterizzare l’essenza di un percorso terapeutico: in termini di relazione, cioè, l’accettazione del terapeuta verso te stessa/o e i tuoi vissuti diventa un “trampolino di lancio” per fare lo stesso con la tua Persona.

Detto in altre parole, il terapeuta ti accetta non perché si chiama Madre Teresa di Calcutta, ma perché tiene in grande conto la tua vita. Accettare non vuol dire tollerare tutto e tutti, o acconsentire a qualsiasi richiesta o situazione: significa, in poche parole, fare il tifo per te per il solo fatto che esisti.

Questo, quindi, non significa approvare a prescindere tutto quello che il paziente fa o dice, ma vuol dire semplicemente accoglierlo anche se fa o dice qualcosa con cui non siamo d’accordo.

Come puoi ben vedere, qui siamo ad un livello molto più complesso e profondo rispetto a ciò che i più immaginano quando si parla di accettazione: l’accettazione, quindi, presuppone una scelta di relazione ben precisa. Io terapeuta scelgo di accettare nel modo più sincero possibile te non perché sei bella/o e brava/o, ma perché sei. Punto. Senza condizioni.

Ecco perché, ci sono alcuni di noi che, per esempio, scelgono di non lavorare con determinate categorie di Persone, come possono essere i pedofili o i tossicodipendenti: lo fanno perché, magari per la loro storia personale, non si sentono “liberi” di poter accettare davvero.

E più fai esperienza diretta di riceve accettazione da parte dell’altro, più impari a regalarne a tua volta un po’ anche a te stessa/o: ecco il secondo canale dell’accettazione.

Un percorso di psicoterapia dovrebbe favorire e stimolare sempre di più l’accettazione verso se stessi, verso la propria storia o i propri vissuti “scomodi”. Ripeto, accettare poi non vuol dire tollerare senza fare nulla, ma è più vicino ad abbracciare i tuoi vissuti senza giudicarli e cercando, anzi, di trovare loro un senso costruttivo per la tua vita prima ancora di provare a superarli. 


17. Consapevolezza

 

La consapevolezza ha a che fare con la conoscenza e la comprensione.

Spesso si arriva in terapia sentendo che qualcosa dentro di noi non va, ma non avendo ben chiaro cosa sia: questo succede perché, spesso e volentieri, non ci conosciamo davvero nel profondo.

A volte è più rapido e facile mettere la testa sotto la sabbia invece di farsi delle domande, o di permettersi di vivere delle emozioni “scomode”. 

Invece, essere consapevoli significa imparare a conoscersi e a comprendere quali sono i propri “punti deboli”, i propri “schemi” di comportamento, ma anche le proprie risorse e qualità.

Uno dei massimi obiettivi della psicoterapia è, perciò, quello della consapevolezza, proprio perché solo se sono a conoscenza e mi rendo conto dei meccanismi che partono da dentro di me in certi momenti potrò, pian piano, imparare a gestirli.

E quando parliamo di consapevolezza ci riferiamo alla consapevolezza emozionale (Cosa sto provando in questo dato momento? Come mi fa sentire quella data situazione? Cosa provo per me stessa/o?), a quella corporea (Che messaggi mi sta mandando il mio corpo in questo momento? Quali stimoli stanno arrivando dal mio corpo? Dove sento l’emozione nel corpo?).

Ma parliamo anche di consapevolezza cognitiva (Che pensiero sto facendo in questo momento? Sono consapevole del fatto che il mio pensiero non è la realtà? Che significato dò a quella data situazione?).

Infine, esiste anche una consapevolezze relazionale (Sono consapevole che in questa relazione sto attivando i miei vecchi “copioni”? Mi rendo conto di quali sono i miei bisogni rispetto a questa relazione? Cosa sento per quella data persona?) e comportamentale (Perché sto agendo così? Cosa muove il mio comportamento in quella data situazione? Cosa posso fare per cambiare quella situazione?).

La relazione con il tuo terapeuta, quindi, dovrebbe nel tempo facilitare dentro di te la consapevolezza e l’insight, proprio perché dovrebbe trasferirti il messaggio che tutta la tua realtà esperienziale va bene così com’è e non ha bisogno né di essere negata, né di essere censurata o, peggio ancora, nascosta. 


18. Congruenza

 

Anche quella della congruenza è una questione che assume doppia valenza: è, cioè, un qualcosa che dovrebbe essere di dominio sia del terapeuta che del paziente.

Mi spiego meglio: la congruenza è una componente personale che non sempre è presente dentro di noi, soprattutto quando passiamo un periodo di crisi e chiediamo il supporto di un professionista.

In questo senso, dovrebbe essere proprio la figura congruente dello psicologo ad “insegnarci” la congruenza: ma non attraverso una lezione accademica, attraverso la relazione stessa.

Spesso, per intenderci, ci capita di sentirci in un certo modo e di agire usando modalità non coerenti con quello che sentiamo; oppure facciamo delle scelte che non sono in linea con ciò in cui crediamo solo per accontentare qualcuno; oppure rinneghiamo tutta una sfera della nostra emotività perché “non è bene” sentirsi in un dato modo.

Non ti sto a spiegare tutta la questione, ma devi sapere che l’essere incongruenti (che, poi, spesso va di pari passo al non essere consapevoli) arriva da lontano, forse dal periodo in cui eravamo molto piccoli.

Periodo nel quale, per determinati motivi, ci hanno fatto arrivare il messaggio che seguire i nostri bisogni non era ok, rinnegarli e “adottare” i bisogni di qualcun altro era ok. In questo modo il bambino impara a non fidarsi della sua esperienza interiore, ma assume come “metro” di giudizio ciò che arriva dall’esterno. Ed ecco che il divario tra il proprio vero Sé e l’apparenza aumenta, tanto da non sapere più sentire o capire cosa si vuole davvero nei casi estremi.

Essere congruenti significa, invece, essere “allineati”: la tua pancia è collegata al tuo cuore che è collegato alla tua testa e ai tuoi comportamenti, per intendersi.

E se, per caso, nella tua vita la congruenza non l’ha mai fatta da padrone? La relazione terapeutica interviene anche su questo. Attraverso la congruenza che tu sperimenti nella relazione con il tuo terapeuta impari ad essere più congruente con te stessa/o.

Ora, si spera che il professionista stesso abbia a sua volta lavorato abbastanza su questo per aiutare anche te a farlo: certo è che se, per esempio, ti dice “sono pronto ad ascoltarla” e poi ti sbadiglia davanti non è proprio congruente congruente!

Scherzi a parte, la congruenza è spesso uno degli obiettivi fondamentali all’inizio, ed è uno dei traguardi più importanti che raggiungerai alla fine di un percorso, se solo accetterai di conoscerti più da vicino e se sperimenterai la piena accettazione di chi sei davvero. 


19. Cambiamento

 

Questa è una parolina un po’ controversa e difficile a parer mio! In psicoterapia è un po’ il “pane quotidiano” parlare di crescita, cambiamento, miglioramento e via dicendo.

Possiamo dire che il cambiamento ha a che vedere con una “modifica” personale o relazionale, che ha la funzione di migliorare la qualità della tua vita.

Ora, il punto è che spesso si pensa che la psicoterapia faccia cambiare le persone “miracolosamente”, che le trasformi in qualcos’altro. Allora, se intendi il cambiamento in questi termini devo un attimo deluderti: non è che la psicoterapia ti trasforma (anche perché, detto così, sembra che ti impongano le mani senza che tu faccia nulla!).

La psicoterapia “toglie gli ostacoli” che sono sul tuo cammino per permetterti di essere come vuoi essere: quindi è vero che, per forza maggiore, come hai appreso delle modalità comportamentali disfunzionali puoi disapprenderle, ma è anche vero che l’ottica della terapia è, forse, non quella della trasformazione, ma quella del migliore adattamento possibile alla tua realtà di vita.

Si va in psicoterapia non per risolvere tutti i propri problemi o per essere immune dal dolore o dalla tristezza, questo è irreale oltre che non umano! Si va in psicoterapia per acquisire degli strumenti per rispondere nel migliore dei modi ai problemi e al dolore che la vita, inevitabilmente, ti regalerà.

Ecco perché porsi come obiettivo terapeutico un totale cambiamento di personalità è del tutto irrealistico, oltre che controproducente: se vuoi cambiare del tutto significa che non ti accetti e, quindi, andiamo a vedere da dove arriva sta cosa che non ti accetti piuttosto!

Detto in altri termini, forse l’ottica della terapia non è tanto quella della “guarigione”, ma quella della cura: faccio un percorso dove imparo a prendermi cura di me in maniera autonoma. Quindi, come dire, il terapeuta ha la funzione di mettere un po’ di olio negli ingranaggi della tua macchina o di “riparare” insieme a te ciò che si è inceppato, ma non può né guidare al posto tuo, né dirti che strada prendere.

Il rischio, se no, è quello della dipendenza: se inizio a pensare che la mia terapia finirà quando diventerò un’altra persona qualcosa non funziona proprio a monte! Allora, cambiamento si, ma più in termini di modo di leggere la vita e te stessa/o, che nei termini di un radicale cambio di identità! Poi, per carità, succede anche questo, ma sono situazioni particolari.

 

L’obiettivo del cambiamento qui è acquisire gli strumenti per barcamenarti, da sola/o, nella vita se al momento senti di non averne. E questo non vuol dire restare in terapia fino a che non proverai più dolore, sarai immune ai problemi o ti sentirai al top sempre e comunque. 


20. Confini

 

In psicoterapia i confini sono molto importanti. Con questo termine si intendono sia i confini strettamente legati al setting, sia quelli relativi al mondo interno di ognuno.

I confini del setting hanno a che vedere con le “regole” che sono necessarie all’interno della relazione terapeutica: regole legate al tempo, al luogo, alle modalità di relazione, al contratto.

Avere dei confini in terapia ti tutela sempre, anche quando pensi che sia tutta una questione esagerata. Anche quando, magari, vorresti andare oltre la relazione professionale perché ti sei legata/o così tanto al professionista che ti segue che vorresti fosse un tuo amico.

I confini del setting riguardano, per esempio, il segreto professionale o l’azione all’interno della stanza di terapia: per intenderci, se sei arrabbiata/o a morte con qualcuno è assolutamente lecito esprimere la tua rabbia, ma un confine sensato è quello che ti impedisce di distruggere lo studio del terapeuta perché sei arrabbiata/o.

Oppure, un confine molto importante è rappresentato dagli orari: rispettare un dato giorno e orario, senza la pretesa che il terapeuta sia disponibile sempre e comunque quando tu lo desideri, ti insegna non solo l’autodisciplina e l’autoregolazione, ma ti serve per imparare ad individuarti e gestirti in autonomia.

Ancora, non rapportarti al tuo terapeuta come ad un amico o, peggio ancora, ad un amante, tutela il lavoro che stai facendo e lo legittima.

Altro discorso è quello legato ai confini personali: spesso arrivi in terapia perché senti che ti fai dominare gli altri, che non sai pronunciare la parola no, che fai fatica a proporti sul lavoro, che non ti fidi degli altri, che non sai mai dove inizia la tua libertà e dove finisce quella dell’altro.

In questo senso, la psicoterapia ti serve proprio per imparare a strutturare dentro di te dei confini, sia in termini di relazioni con gli altri, che a livello interiore.

Senti di avere un corpo che spesso ti manda dei segnali specifici, o tendi ad ignorarlo? Senti di saper riconoscere le tue emozioni e di poterle esprimere agli altri, oppure i tuoi confini sono rigidi ed impermeabili?

Sai esprimere il tuo punto di vista o senti che non ne hai il diritto? Nel tuo modo di comportarti sei inflessibile con te stessa/o e gli altri, o ti poni in maniera morbida e aperta anche al “cambio di programma”? Hai chiari quali sono i tuoi bisogni e come puoi manifestarli all’esterno? 

Questo per dire che costruire i propri confini interni non è così automatico e, a volte, il lavoro che fai in psicoterapia ti serve anche a questo. 


21. Emozione

 

Protagonista indiscussa di ogni psicoterapia (o almeno dovrebbe!), l’emozione può essere considerata una risposta immediata (o quasi) a degli stimoli che possono provenire sia dal nostro interno sia dall’esterno.

Nel momento in cui ti vivi una data emozione, sia essa più o meno piacevole, qualcosa dentro e fuori di te cambia.

Cambia la tua espressione facciale, cambia ciò che senti a livello corporeo, cambia quello che pensi, cambia quello che dici, cambia quello che fai. Questo per dire che parlare di emozioni può essere apparentemente semplice, ma nello stesso tempo complicato perché bisogna considerare molti aspetti.

In quanto interfaccia tra interno ed esterno, biologico e psichico, mente e corpo, conscio e inconscio, le emozioni assumono una valenza strettamente adattiva: favoriscono l’auto ed etero regolazione; incidono sul sistema cognitivo, la memoria e il ragionamento; influenzano la motivazione e la decisione; incidono sulle relazioni e la comunicazione in genere.

Ecco perché, secondo la mia liberissima interpretazione, le emozioni “smuovono”: sono componenti essenziali e fondamentali della nostra vita, e questo credo sia innegabile.

Secondo le maggiori teorie a riguardo, le emozioni sarebbero relativamente poche (6 o al massimo 10) e costituirebbero delle entità discrete, cioè distinte le une dalle altre e caratterizzate da configurazioni ben specifiche a livello espressivo, fisiologico, motivazionale ed esperienziale.

Sono dette anche emozioni fondamentali, o di base, e sarebbero innate, quindi uguali in tutte le culture (sono felicità, tristezza, paura, rabbia, disgusto, sorpresa).

Tutti gli altri nomi di emozioni si riferirebbero ad emozioni derivate (dette anche complesse perché, in qualche modo, aggiungono una valutazione di te stessa/o in uno specifico contesto situazionale), che dipenderebbero maggiormente dalla cultura e dall’apprendimento.

Spesso si arriva in terapia perché si fa fatica a regolare le proprie emozioni, nel senso che puoi trovarti in delle situazioni dove “senti troppo” quello che provi e non sai come gestirlo (rabbia intensa, ansia molto forte, tristezza senza sbocco).

Oppure, potresti essere come “congelata/o” a livello emozionale, cioè non sei in grado né di sentire né di riconoscere le tue emozioni.

Uno degli obiettivi fondamentali della psicoterapia è, infatti, proprio quello di favorire il contatto emozionale e la consapevolezza, oltre che sviluppare delle adeguate capacità di regolazione emotiva.

Quante volte ti sei approcciata/o alle tue emozioni vedendole come delle “minacce” o come delle parti di te che devono essere eliminate? Immagino tante: ecco che, allora, devi sapere che la psicoterapia lavora in qualche modo all’opposto rispetto a quello che ti aspetti!

Non ti insegna ad eliminare le tue emozioni, ma a conoscerle ed accettarle. Non ti insegna a spaventarti per quello che senti dentro, ma a regolarlo e dargli un significato. 


22. Pensiero

 

I pensieri sono parte di noi. E lo sono in un modo molto attivo e predominante: prova a fare qualche esercizio di mindfulness e ti accorgerai che non pensare è quasi impossibile o, comunque, non è così facile e immediato come può sembrare.

Possiamo definire i pensieri come dei “prodotti della nostra mente”, che si presentano sottoforma di frasi che tendiamo a ripetere nella nostra testa, come se ascoltassimo qualcuno che parla dentro di noi.

E, fin qui, tutto bene: i pensieri sono molto importanti per la nostra vita e per il nostro adattamento all’ambiente, in quanto ci permettono di pianificare, prevedere le diverse situazioni, entrare in relazione con gli altri, anticipare i pericoli, produrre idee e trasformarle in azione, e via dicendo.

Il problema si verifica quando iniziamo ad identificare i nostri pensieri con la realtà: spesso ci accorgiamo di essere tristi, di malumore, agitati ma non sappiamo perché. Se poi ci fermiamo un attimo e proviamo a chiederci che succede, ecco che la maggior parte delle volte salta fuori un pensiero collegato.

I pensieri automatici sono delle manifestazioni della nostra mente che arrivano senza avvertire e si presentano come parole, immagini, ricordi: la fregatura arriva quando iniziamo a credere che le cose siano realmente come ci dicono i nostri pensieri, e diventiamo schiavi di essi permettendo loro di invadere il nostro spazio mentale e la nostra intera vita.

A volte, che lo ammettiamo o meno, siamo così succubi dei nostri pensieri disfunzionali, che questi influenzano in maniera diretta i nostri stati d’animo, il nostro corpo e i nostri comportamenti proprio perché pensiamo che siano realtà.

Prova a mettere a fuoco un momento in cui ti sei sentita/o incapace o priva/o di valore: hai continuato a “cercare prove” di questo nella tua mente, e il tuo pensiero si è trasformato in una sorta di ruminazione che aveva come obiettivo quello di aumentare inconsapevolmente la tua convinzione di non valere e, in conseguenza di ciò, il tuo malessere.

Detto in altri termini, molto spesso i nostri pensieri influenzano la nostra vita perché ci fondiamo con essi reputandoli delle verità reali e inconfutabili: la psicoterapia, e soprattutto alcuni approcci di terapia, lavora anche sui pensieri disfunzionali, insegnandoti delle “strategie” per modificarli o per far sì che non incidano negativamente sul tuo quotidiano. 


23. Corpo

 

Di frequente si pensa che in psicoterapia il corpo sia il grande escluso: nell’immaginario comune è la parola a farla da padrone.

Come se il corpo non c’entrasse, come se quella corporea fosse una componente estranea al mondo della terapia psicologica.

Niente di più errato! Se ci pensi, il corpo è il nostro “involucro”, è la linea di confine tra il nostro interno e l’esterno, è uno degli strumenti di comunicazione più importanti che abbiamo. E, per questo, quando sei nella stanza di terapia sei lì anche con il tuo corpo.

E il tuo corpo parla con te e, a volte, anche al tuo posto: pensa alle manifestazioni di ansia o di rabbia, a come ti senti fisicamente quando sei triste, ai disturbi alimentari, a come ti muovi se sei agitata/o, all’autolesionismo: il tuo corpo è una sorta di “cartina di tornasole”, che ha quasi sempre una funzione comunicativa molto importante se solo sei capace di ascoltarlo e prenderti cura di lui.

Devi sapere che esistono addirittura tutta una serie di approcci psicoterapici che usano il corpo quasi in via esclusiva per lavorare sulle difficoltà dei pazienti.

E, senza andare nemmeno tanto lontano, non è un caso che in certi momenti della terapia si chieda, per esempio, al paziente dove sente certe emozioni nel corpo, o lo si aiuti ad identificare una data emozione proprio a partire da ciò che il corpo sta comunicando.

Oppure, non meno importante, esistono tutta una serie di interventi legati al rilassamento e alla gestione emotiva che si focalizzano proprio sul corpo e sulle sensazioni che arrivano da esso.

Questo per dirti che se pensi che la psicoterapia non c’entri nulla con il corpo sei un po’ fuori strada e, anzi, un percorso personale ha anche la funzione di migliorare non solo il rapporto che hai con il tuo corpo, ma anche di dargli molta più importanza e attenzione rispetto a quella che gli riservi normalmente. 


24. Contatto

 

Quando parliamo di contatto ci viene, forse, in mente il contatto fisico tra due persone. In psicoterapia possiamo parlare di contatto dandogli due significati particolari.

Il primo ha a che vedere con il contatto con te stessa/o: nel momento in cui fai un percorso di terapia inizi ad ascoltarti di più, a sentire le tue emozioni in modo più chiaro e a leggere i tuoi bisogni in maniera nuova.

Entri, cioè, in contatto con ciò che sei e con tutte le parti di te, e impari a dialogarci.

Potremmo dire che essere in contatto significa essere “connessi”, collegati al nostro sentire e al nostro pensare e, si spera, essere congruenti rispetto a questo sentire. Va da sé che, più prendi contatto con il tuo interno, più impari a relazionarti con l’esterno, quindi ad entrare in relazione vera con gli altri.

E qui arriviamo al secondo significato del contatto, quello legato alla relazione con il tuo terapeuta. E’ proprio attraverso la connessione che sperimenti nella stanza di terapia che impari ad esercitare la connessione con te stessa/o. Proprio attraverso l’esperienza di sentirsi accettati e compresi dal proprio terapeuta, si inizia a farlo in maniera diretta con se stessi.

Infine, la graduale fiducia che sperimenti nella relazione terapeutica può svolgere una funzione cruciale nel darti la possibilità di iniziare a fidarti di più degli altri e ad aprirti maggiormente alle relazioni, proprio perché la relazione terapeutica diventa “correttiva” rispetto alla tua storia e al tuo passato. 


25. Sintonizzazione

 

Un po’ come quando ci sintonizziamo con una data frequenza radiofonica, possiamo intendere la sintonizzazione come un “fenomeno relazionale” che si verifica tra due Persone nel momento in cui entrano in una relazione intima tra di loro.

Per darti un’idea puoi pensare alla relazione tra una mamma e il suo bambino: nonostante sia neonato e non possa esprimersi a parole, la mamma si sintonizza con lui e riesce, grazie a questa sintonizzazione, a “sentirlo”, comprendendo i suoi bisogni e facendo il possibile per soddisfarli.

In psicoterapia questo si verifica tutte le volte che ti senti ascoltata/o e profondamente capita/o dal tuo terapeuta: si verifica, infatti, un qualcosa di molto simile a ciò che avviene nella relazione mamma-bambino.

Il terapeuta si sintonizza con i tuoi vissuti, cioè ti comprende empaticamente, e questo ti fa fare l’esperienza di essere “abbracciata/o” idealmente in un contesto di calore e accettazione profonda. Senti, quindi, che non sei sola/o, e che la Persona seduta sulla sedia di fronte a te ti sta guardando con benevolenza e sta comprendendo come ti senti e cosa provi.

La sintonizzazione che sperimenti ha, infine, l’intento di aiutarti a sintonizzarti a tua volta con te stessa/o, e poi a “mettere ordine” in emozioni che a volte possono essere caotiche e complicate. 


26. Catarsi

 

Questa parola viene usata per lo più in ambito psicoanalitico per andare ad identificare il processo del “buttare fuori” le proprie emozioni, per lo più legate a situazioni traumatiche della propria storia, liberandosi in qualche modo degli effetti nocivi che queste situazioni hanno creato.

Se, da un lato, ci sono delle situazioni nelle quali esprimere la propria rabbia o il proprio dolore può essere, appunto, catartico dobbiamo anche ragionare sul fatto che quello della catarsi è un po’ un “mito”.

Con questo intendo dire che è assolutamente ok potersi “liberare” esprimendo tutte le proprie emozioni, spesso in relazione ad una data persona, anzi la psicoterapia serve spesso a “scongelare” tutta una serie di emozioni incastrate dentro di noi che hanno tanto bisogno di uscire. In tal senso, possiamo dire che la catarsi ha un po’ questa funzione, ma, nello stesso tempo, non è sufficiente.

Per superare certe ferite è necessario elaborare quei vissuti emozionali, non solo “spararli fuori” per liberarsene. Questo, tradotto, vuol dire dare loro un senso, non renderli vani, ma inserirli in una cornice di significato più ampia, integrandoli nella propria storia.

Per farti capire, se sono profondamente arrabbiata con mio padre mi servirà a poco inveire contro di lui in terapia: dovrò esprimere tutta la rabbia possibile per ciò che mi ha fatto, certo, ma poi dovrò anche andare a dare voce alla grande ferita che si nasconde dietro la mia rabbia.

In questo modo svilupperò compassione verso di me, potrò andare a vedere quali sono i veri bisogni che la rabbia sta “coprendo” e, quindi, me ne prenderò cura direttamente, dando un senso a ciò che mi è successo e inserendo tutto questo nella mia storia personale.

Magari, così facendo, potrei anche arrivare a comprendere il perché mio padre mi ha fatto del male, riuscendo a perdonare senza giustificare,e leggendo quello che mi è successo come un evento difficile e doloroso della mia vita che, però, mi ha fatto comprendere delle cose di me e mi ha permesso di entrare in contatto con i miei bisogni più profondi.


27. Coping 

 

Possiamo spiegare questa parola intendendola come un “far fronte” alle difficoltà che la vita ci pone davanti.

Detto in altri termini, il coping ha a che vedere con il nostro modo di rispondere agli eventi, più o meno stressanti, che ci succedono.

Esistono strategie di coping più funzionali di altre ma, in generale, parlare di coping risponde un po’ ad una domanda del genere: “come reagisco quando mi trovo a sperimentare delle situazioni non proprio piacevoli?”.

Possiamo dire che il coping non si esplica in un dato comportamento che viene messo in atto: parliamo, infatti, di una serie di strategie di coping, andando a riferirci ad un insieme di “scelte” che facciamo in maniera più o meno flessibile in base alla situazione critica in cui ci troviamo.

Tutto questo comporta, cioè, un adattarci alla specifica situazione facendo il meglio che possiamo fare per ridurne l’impatto nocivo per la nostra vita. Quindi le tue strategie di coping dipenderanno essenzialmente dalla tipologia di situazione in cui ti trovi e dalla sua gravità, ma anche a soprattutto da come sei fatta/o tu.

Potresti, per esempio, usare un coping centrato sul problema che ti porta a voler trovare la causa di un dato problema al fine di risolverlo, oppure potresti adottare un coping più centrato sulle emozioni, cioè andare a gestire l’impatto emotivo che un evento stressante ti ha causato al fine di alleviarlo e renderlo più tollerabile e via dicendo.

Non c’è una strategia migliore dell’altra, ma devi intendere il coping come un processo che cambia in base alla situazione che abbiamo davanti e al periodo di vita che stiamo vivendo.

Va da sé, che se le tipologie di coping di cui ti ho parlato possono essere intese come funzionali, esistono anche dei modi più disfunzionali per rispondere ad un evento critico: per esempio, evitare il problema bevendo o rifugiandosi in diversivi vari per non affrontarlo, o tendere a leggere tutto solo in maniera catastrofica, o congelare gli stati emotivi che una situazione stressante ti creano sono alcuni degli esempi più diffusi di coping disfunzionale.  


28. Resilienza

 

Possiamo intendere la resilienza come la capacità che abbiamo di affrontare un evento traumatico o stressante.

Se il coping, come già visto, ha a che vedere con il “come” lo affrontiamo, la resilienza corrisponde alla capacità che abbiamo di mobilitare le nostre risorse interne per reagire ad un evento avverso.

Non so se ti è mai capitato, ma succede che a volte affrontiamo delle situazioni difficili sorprendendoci anche di noi stessi perché mai avremmo immaginato di reagire in quel modo, o vediamo qualcun altro a noi vicino rialzarsi nonostante una brutta caduta.

Resilienza è appunto questo: la capacità di reagire agli eventi avversi che la vita ci mette davanti. Questo non vuol dire non soffrire o affrontare tutto come se fosse una passeggiata: assomiglia un po’ di più al vivere la difficoltà che abbiamo davanti sentendoci “protagonisti” e non vittime impotenti della questione.

Certamente ci sono Persone più resilienti di altre e, un po’ come il coping, la resilienza non è data a priori, ma è una funzione psichica che dipende molto da come siamo fatti, dalla nostra storia, dal contesto e dal tipo di evento a cui siamo sottoposti. Ma, senza dubbio, la psicoterapia può essere una buona palestra per allenarla, anche perché ci aiuta a trovare dentro di noi delle risorse che, magari, abbiamo dimenticato lungo il cammino, o a scoprine di nuove. 


29. Risorse

 

Devi leggere le risorse come una sorta di “dotazione” che hai dentro e che ti serve per adattarti il meglio possibile alla tua realtà di vita.

Quando si inizia un percorso di terapia è molto importante partire non solo da ciò che non va ma, soprattutto, da ciò che funziona già bene.

In tal senso in gergo parliamo proprio di diagnosi funzionale, cioè di ragionare con il nostro psicologo su cosa di positivo e funzionale possiamo mettere sul piatto della bilancia.

Questo tradotto vuol dire andare a vedere quali sono i nostri punti di forza, gli aspetti di noi che ci piacciono, i comportamenti funzionali che adottiamo nella nostra vita, i traguardi raggiunti, le relazioni protettive e positive che abbiamo.

Fare questo bilancio delle nostre risorse è fondamentale perché ci aiuta ad essere più obiettivi e a ridimensionare ciò che siamo, impedendoci di vedere solo il negativo o ciò che non accettiamo di noi. Guardare le nostre risorse ci permette, infatti, di affrontare molto meglio le difficoltà e tutto ciò che, invece, non funziona bene.

Devi intendere le tue risorse come delle “ancore di salvezza”, che ti aiutano a fissare la tua barca tenendola al sicuro anche e soprattutto durante la tempesta. Per fartela breve, proprio nei momenti più bui e di maggiore difficoltà che andrai a vivere ricordarti e riconoscerti delle risorse ti potrà aiutare a non mollare e a vedere una lucina anche nel buio più fitto.

Purtroppo, però, trovare le proprie risorse non è così facile, perché spesso non riesci a vederne nemmeno una dentro di te: soprattutto qui la psicoterapia è un potente strumento per aiutarti a vederle, per permetterti di leggere chi sei senza filtri e in modo più obiettivo.

Questo, ovviamente, non ha nulla a che vedere con il convincerti di avere qualità che non hai e simili: sperimentare lo sguardo accettante e accogliente della Persona che hai davanti ti può permettere di vedere le bellezze che già possiedi, prima attraverso questi occhi esterni e, piano piano, anche attraverso lo sguardo di accettazione e rispetto per te stessa/o che imparerai a rivolgerti.


30. Difesa

 

Forse questa parola ti evoca immagini di lotta e simili e, in un certo senso, potremmo leggerla così.

In psicoterapia parliamo di difese, o meccanismi di difesa in senso psicoanalitico, quando ci riferiamo a tutta una serie di “strategie” per lo più inconsapevoli che una Persona adotta per allontanarsi dalla sua esperienza e per non vedere un conflitto interiore di una qualche natura.

Potresti immaginare la difesa come una sorta di corazza, metafora che uso spesso anche io in studio: è come se avessi un’armatura che ti protegge da tutti gli stimoli interni ed esterni che potrebbero farti del male.

Vista così capisco che sembri un qualcosa di altamente positivo e, in parte, lo è anche: se mi metto questa armatura è perché ne ho bisogno, perché mi protegge dal sentire o vedere determinate cose, perché mi permette di adattarmi nel migliore dei modi possibili alla mia realtà.

Il punto, però, è che spesso la difesa ci limita anche tanto, perché non ci permette di entrare davvero in contatto con noi stessi e con gli altri, ci rende schiavi di tutta una serie di doverizzazioni, giudizi o modi di fare che non ci rendono liberi.

Spesso non sai nemmeno di avere questa corazza e inizi a vederla proprio quando lavori in terapia: in questo senso devi immaginare il processo terapeutico come un qualcosa che non ti elimina la difesa, anzi se lo facesse sarebbe a mio avviso solo dannoso e controproducente, ma che ti permette di entrarci in relazione.

La terapia ti aiuta, nel tempo e con calma, a vedere la tua difesa, riconoscendole sia la valenza protettiva che ha avuto nella tua vita, ma anche il prezzo che stai pagando tenendotela addosso.

Ripeto, nessuno dovrà mai aggredirla o togliertela, ma potrai lavorare insieme al tuo terapeuta per renderla più “flessibile”, andandole a chiedere di esserci per te quando realmente serve, e a fare un passo indietro nelle situazioni in cui non serve più o è di ostacolo al tuo pieno sviluppo. 


31. Sintomo

 

Possiamo intendere il sintomo come la manifestazione di un disagio.

Intendilo come una sorta di “campanello di allarme” che ti indica che qualcosa non va e ti invita a fermarti per prendertene cura.

Ci sono situazioni nelle quali riconosci il sintomo come invalidante e tendi a volertene occupare, altre dove sono le Persone a te vicine a farti vedere un qualcosa che tu non riesci a riconoscere come parte di te.

Ci sono sintomi, come quelli legati al mondo dell’ansia o della depressione, che possono essere davvero insopportabili e che vorresti scacciare velocemente dalla tua esperienza: certamente, se te ne occupi, potrà succedere che il sintomo in questione poi sparisca anche.

Il punto, però, è che spesso vedere il tuo sintomo come un ostacolo o un qualcosa che va estirpato non ti aiuta, anzi.

Non è facendo la guerra al tuo sintomo che risolverai la cosa, anche perché molto spesso il tuo sintomo è l’unico modo che hai per esprimere un disagio, per “buttare fuori” una sorta di energia che, se no, resterebbe completamente bloccata. In tal senso in terapia ti prendi cura del sintomo, non solo nell’ottica della guarigione, ma soprattutto in quella dell’ascolto e della comprensione.

Comprensione di cosa quel sintomo ti sta dicendo di te e della tua storia, e accettazione di tutti i vissuti possibili legati ad esso. Solo quando ti avrà permesso di entrare in contatto con ciò che senti e di dar voce ai tuoi bisogni più profondi, avrà svolto la sua missione e potrai “lasciarlo andare”. Un po’ come dire che se la tua ferita non sanguina non ti accorgerai di avercela e non potrai medicarla.  


32. Regolazione

 

Devi intendere la regolazione emotiva come la capacità di modulare le tue emozioni con il fine di adattarti il meglio possibile al tuo ambiente.

Immagina che regolare le emozioni sia un po’ come alzare o abbassare il volume della tua “radio interiore” a seconda delle necessità, in modo che questo volume ti permetta di sentire la musica che sta suonando senza però arrecarti fastidio.

La modulazione delle emozioni non è un qualcosa di già dato a priori, ma devi intenderla come un processo che si costruisce fin da piccoli, con gradi diversi di complessità.

E, quando parliamo di regolazione, entrano in campo due forme assolutamente complementari e collegate: la regolazione dell’esperienza emotiva e quella dell’espressione emotiva. 

Regolare la tua esperienza emotiva ha a che vedere con la modulazione dell’intensità delle tue emozioni: se, per esempio, sei arrabbiata/o devi poter essere in grado di viverti la tua rabbia senza necessariamente sentirti sopraffatta/o a tal punto da non riuscire a calmarti.

Oppure, sempre in linea con questo concetto, regolare la propria esperienza emotiva ha a che vedere anche con il significato che ciò che senti assume in un dato momento, come questo incide sui tuoi pensieri e come tu puoi gestire ciò che senti esercitando la tua consapevolezza.

Questo, tradotto, vuol dire anche essere in grado di riconoscere e dare un nome alle proprie emozioni e a quelle altrui, inserire la nostra esperienza emotiva all’interno di una cornice di senso mettendola in relazione con i nostri pensieri, usare in modo appropriato le nostre emozioni anche per fare delle scelte comportamentali.

La regolazione dell’espressione emotiva, invece, è inerente alla gestione del modo con cui esprimiamo le nostre emozioni: di nuovo, se sei arrabbiata/o un conto è, magari, esprimere il tuo disappunto a parole o con una certa espressione facciale, altro è urlare a squarciagola mentre sei in mezzo alla strada o, peggio ancora, distruggere qualcosa o fare del male a qualcuno!

Tutto questo ha a che fare con le “regole di esibizione emotiva” che sono definite in maniera più o meno manifesta in un dato contesto. Saprai bene come, per esempio, l’espressione emotiva delle culture orientali sia molto diversa da quella occidentale e via dicendo.

Siccome è un qualcosa che si sviluppa sin da piccoli, la modulazione emotiva nei bambini è strettamente collegata alle prime esperienze di relazione che si hanno con i genitori: proprio perché, all’inizio, il sistema del bambino non è pienamente sviluppato, la funzione dell’adulto sarà proprio quella di “fare per lui”.

La regolazione emotiva del bambino è, perciò, a carico del genitore ed è, quindi, una sorta di etero regolazione: solo se mamma e papà saranno in grado di aiutare il loro piccolino a riconoscere quello che sente, e a gestirlo per calmarsi, potranno permettere lo sviluppo della sua successiva capacità di autoregolazione.

Ma se, per qualche motivo, questo non avviene potresti avere delle difficoltà proprio nella regolazione delle tue emozioni: a questo proposito, la psicoterapia è il teatro primario nel quale poter “imparare” questa funzione, proprio e soprattutto sulla base dell’esperienza di regolazione che farai con il tuo terapeuta. 


33. Bisogno

 

Devi intendere il bisogno come una necessità fondamentale dell’essere umano, che genera appunto una mancanza da compensare a diversi livelli.

E, in conseguenza di ciò, il bisogno diventa una spinta motivazionale ad agire in qualche senso per soddisfarlo.

Quindi, dentro il bisogno ci sono il desiderio e la mancanza di qualche cosa, ma anche la spinta a cambiare il tuo stato per non sentire più questa mancanza.

Ti starai forse chiedendo perché è così importante parlare di bisogni e andare a comprenderli: se ci pensi, spesso sei spinta/o ad agire proprio sulla base di un bisogno specifico e, se ne sei consapevole, è molto più facile che tu te ne possa prendere cura.

Devi sapere che nasci naturalmente in contatto con la tua esperienza e i tuoi bisogni ma, crescendo, può succedere che dovrai imparare a “rinunciare” ai tuoi bisogni perché sono in contrasto con chi ti sta accanto.

Per farti un esempio banale, se da bambina/o sei triste e hai voglia di piangere per sfogarti, imparerai a negare questo bisogno se l’ambiente che ti circonda ti manda il messaggio che il pianto non è ben accetto, e via dicendo. Si genera, allora, una sorta di incongruenza tra ciò che tu senti e ciò che il mondo esterno si aspetta da te: uno degli epiloghi peggiori di tutto questo è che la pressione esterna è talmente forte che sei portata/o a rinnegare completamente la tua intera esperienza per sopravvivere.

A questo punto non farai più il passaggio di sentire un qualcosa e rinnegarlo, ma non sentirai proprio più nulla: questo è quello che intendiamo per incongruenza e mancanza di contatto con la tua esperienza interiore.

Ecco che, allora, diventa necessario riappropriarti del tuo sentire, e quindi dei tuoi bisogni, per ristabilire la fisiologica “connessione interiore” che avevi perso. Questo significa prenderti davvero cura di te e dei tuoi bisogni, esercitando il coraggio necessario a dare loro una voce anche se vanno in contrasto con l’ambiente che ti circonda.

Questa è un’operazione molto complicata, frutto di un lavoro ben preciso fatto di contatto emotivo, accettazione, legittimazione e compassione. Un lavoro che viene fatto in psicoterapia e attraverso la relazione che andrai ad instaurare con la Persona che ti affiancherà nel viaggio alla scoperta dei tuoi bisogni. 


34. Trauma

 

Se andiamo a vedere l’etimologia del termine, la parola trauma deriva dal greco e vuol dire “ferita”.

In questo senso, il trauma diventa un qualcosa che perfora, che lacera, che in fondo scioglie i legami, e, proprio per le sue caratteristiche (intensità, eccitazione eccessiva, agitazione, incapacità a rispondervi e carattere patogeno) rompe un equilibrio interno-esterno e richiede una riorganizzazione della Persona.

Possiamo vederlo come una situazione nella quale la Persona si sente come sopraffatta, come una sorta di “schianto improvviso” nella psiche che non lascia alcuna possibilità di elaborazione e rompe un equilibrio.

Chi vive situazioni traumatiche prova spesso impotenza, vulnerabilità, senso di minaccia, orrore, mancanza di controllo, paura, senso di colpa: ciò che viene messo a rischio nel trauma, quindi, non è solo la propria integrità fisica (se viene minata), ma soprattutto quella psicologica.

Non voglio e non ha nemmeno senso creare una sorta di “scala di importanza” legata all’origine dei vari traumi e alle diverse tipologie: ti basti sapere che esistono traumi legati a specifici eventi di vita dove il potere che hai di controllare gli eventi è pressocchè nullo (lutti, terremoti e simili), traumi legati a situazioni di abuso (sessuale, fisico, emotivo e psicologico), ma anche traumi da omissione di natura più relazionale (mancanza di sintonizzazione emotiva con i figli, assenza di cura, supporto emotivo e psicologico, conforto e simili).

Il punto qui è farti capire che non è assolutamente detto che traumatica possa essere solo una situazione come, per esempio, trovarsi nel bel mezzo di un attentato terroristico: esistono traumi molto più “leggeri” (solo all’apparenza), ma che scavano dentro ancora di più perché vanno a toccare quello che ha a che vedere con l’immagine di te e la tua identità in genere.

Infatti, ci sono tipologie di ferite, quelle appunto legate all’attaccamento e al senso di sicurezza provato o meno con le nostre figure di riferimento, che diventano “croniche” e difficilmente rimarginabili proprio perché incidono sul nostro sviluppo personale.

Nello stesso tempo, però, dobbiamo specificare che traumatico potrebbe non essere l’evento in sé, ma le conseguenze che esso ha per quella specifica persona: ciò che fa la differenza, quindi, è proprio il modo personale e unico di rispondere, elaborare e reagire a determinate situazioni più o meno esterne, le quali possono essere traumatiche per qualcuno e per qualcun altro no.

Ciò che caratterizza la ferita interiore dovuta ad una situazione sfavorevole è proprio la sua “fissità”: in alcuni casi, non riesci ad andare oltre dando un significato a ciò che hai vissuto e, quindi, il tuo ricordo difficile rimane “congelato” in una dimensione senza tempo scollegata dal resto delle tue esperienze.

Non so se ti è mai capitata un cosa del genere, ma spesso succede che chi è stato vittima di un trauma tende o proprio a rivivere, senza volerlo, alcuni frammenti della situazione traumatica (immagini, sensazioni fisiche, emozioni, sogni), come succede a chi è affetto da un disturbo da stress post-traumatico vero e proprio, o ad “isolare” del tutto quello che ha vissuto, andandolo come a dimenticare.

Il problema è che gli echi del trauma fanno capolino ugualmente nella tua vita: e possono manifestarsi sottoforma di emozioni dirompenti, legate magari a tutt’altra cosa, che ti fanno reagire in maniera spropositata e incontrollabile, o attraverso delle convinzioni più o meno negative su te stessa/o e sugli altri, o tramite dei comportamenti “ripetitivi” che ti portano a mettere in atto un “copione” di vita in particolare.

O, ancora più banalmente, il ricordo del trauma che hai dovuto isolare per sopravvivere si può manifestare con sintomi legati all’ansia o alla depressione, o collegati al mondo delle dipendenze in genere.

Diventa allora molto importante andare come a “creare dei ponti” tra presente e passato, in modo da poter “scongelare” quello che è rimasto intrappolato dentro di te, per poi andarlo finalmente ad elaborare. Questo lavoro può essere fatto solo tramite un percorso di psicoterapia e, nello specifico, esistono degli approcci che lavorano in maniera profonda e sistematica su questo come l’EMDR.


35. Autostima

 

Possiamo racchiudere l’essenza dell’autostima in due aspetti fondamentali: la fiducia nelle nostre capacità e il rispetto profondo per noi stessi e per il nostro diritto di esistere.

Se hai una buona autostima non ti senti invincibile o perfetto, ma acquisisci una sorta di fiducia in te stessa/o e nelle tue possibilità, che ti permette di affrontare in maniera diversa le sfide della vita.

Quante volte ti è capitato di rinunciare a fare qualcosa perché ti sentivi già sconfitta/o in partenza? O quante volte non hai creduto nelle tue capacità perdendo delle belle occasioni?  

Possiamo equiparare questa componente dell’autostima al senso di efficacia: una sorta di convinzione interna che ci fa credere nelle nostre capacità (mantenendo, ovviamente, i piedi per terra!) e nel fatto che possiamo apprendere nuove informazioni per raggiungere i nostri obiettivi. Una sorta di fiducia che ci dà la spinta giusta per perseverare e affrontare le eventuali cadute.

L’altra componente dell’autostima è il profondo rispetto per la propria persona: la convinzione che tu sei importante, che hai un valore a prescindere da quello che fai o non fai nella vita. Che vali e meriti di essere rispettata/o in quanto Persona.

Parlo di una specie di “innamoramento” verso te stessa/o: un sentimento che ti porta a darti valore e, per questo, ti fa sentire di meritare di essere felice e di poter soddisfare i tuoi desideri. Questo è molto distante dal narcisismo o da un egocentrismo che non vede altro al di fuori di sé: parlo di una sorta di benevolenza che, in quanto tale, ti permette anzi di andare anche incontro agli altri.

Queste due componenti che costituiscono l’essenza dell’autostima sono interne, non arrivano da fuori. Infatti, l’autostima è un processo, un qualcosa che si costruisce giorno dopo giorno da quando nasciamo. Cambia con noi, rimanendo costante o ballerina a seconda di chi siamo e delle esperienze che facciamo. Non è una meta da raggiungere, ma un viaggio quotidiano. Non è una conquista fissa e immutabile, ma una prova e un allenamento continuo.

Spesso c’è l’errata convinzione che l’autostima si alimenti attraverso fattori esterni, come l’apprezzamento degli altri, l’affetto o la lode. Senza dubbio le esperienze che hai fatto nella vita hanno inciso positivamente o negativamente sulla tua autostima, ma non sono le uniche determinanti in questione.

I fattori interni dell’autostima sono quelli che, più di ogni altra cosa, contribuiscono ad innalzarla. Derivano in buona parte dalle tue esperienze relazionali, ma non ne sono l’esatto risultato. E, soprattutto, sono componenti che si possono “allenare” per migliorare il senso del tuo valore personale e le convinzioni che hai su te stessa/o.

Se ci pensi, le convinzioni che hai sulla tua persona generano delle aspettative in merito a ciò che ti immagini possa succedere, a come tu reagirai a ciò che succede, a come ti rapporterai agli altri.

Parlo di una sorta di profezia che si autoalimenta: se sono convinta/o di non valere niente o se mi sento sempre inadeguata/o è molto probabile che leggerò le mie esperienze con questo tipo di occhiali, e agirò (con i miei comportamenti e nelle mie relazioni) andando, paradossalmente, a rinforzare queste convinzioni.

Ecco che, allora, andare ad intervenire sulle componenti interne dell’autostima, piuttosto che aspettare sempre rinforzi dall’esterno, può essere una strada più fruttuosa e, in qualche modo, anche più vincente nel lungo periodo.


36. Valori

 

Possiamo definire i valori come dei “principi guida” su cosa per noi è importante, come le direzioni che seguiamo mentre camminiamo lungo il sentiero dell’esistenza.

Rispondono a due domande essenziali: “cosa” vuoi essere o fare, e “perché” vuoi essere o fare in quel dato modo.

Possono essere presenti in ogni ambito della nostra vita, dalla famiglia al lavoro al tempo libero.

Se ci fai caso, dietro quasi ogni cosa che dici o pensi è insito un dato valore. Infatti, il valore non si esaurisce mai: non è un traguardo da raggiungere perché, molto probabilmente, sarai in cammino finchè respiri.

Non è, cioè, un obiettivo concreto che puoi spuntare nella tua agenda una volta che lo hai ottenuto. Gli obiettivi sono fondamentali nella vita, ma se non sono sorretti da dei valori sottostanti nulla sarà mai abbastanza per te.

Se, invece, ti concentri sui valori dai quali originano gli obiettivi che ti sei posta/o sarà anche più facile conseguirli. Chiarire a te stessa/o i tuoi valori può aiutarti a vivere più pienamente la tua vita e a non “sprecarne” nemmeno un attimo. Infatti, i nostri valori diventano davvero una bussola che ci guida nella quotidianità, che ci fa scegliere di essere in un dato modo e che ci fa agire in un modo piuttosto che in un altro.

Non pensare che ci siano valori giusti o sbagliati: ci possono essere valori più condivisi di altri dalla società o dal tuo contesto, ma i valori che scegli sono i tuoi e non possono essere oggetto di giudizio. Al massimo, potrà essere giudicato il comportamento che adotti e che ha alla base un dato valore, ma questa è un’altra storia.

Spesso si sceglie di iniziare un percorso di terapia proprio mentre ci si trova in un momento di profonda crisi, nel quale non si riesce più a trovare il senso della vita. Possiamo trovarci nel bel mezzo di un conflitto aperto (se ne hai coscienza hai fatto già metà del lavoro!) tra ciò che siamo e ciò che crediamo di essere o che vorremmo essere.

E, soprattutto nei momenti di crisi o difficoltà, quello che emerge è una sorta di non-senso, di buco nero dove ogni cosa perde significato. Ci ritroviamo spaventati e senza meta, smarriamo la bussola e ci attacchiamo senza esitare a qualsiasi cosa possa alleviare la nostra sofferenza.

Ti sei mai sentita/o così? Hai scelto di abbracciare e ascoltare questo tuo malessere o ti sei stordita/o con lo shopping, il divertimento, il cibo, l’uso di sostanze?

Magari non ci hai mai pensato ma, spesso, il tuo disagio più grande può derivare proprio da una sorta di incongruenza tra ciò che conta per te in teoria e ciò che poi fai in pratica: la difficoltà a far conciliare la nostra vita quotidiana con i valori che diciamo di avere può essere un primo motivo per cui ci copriamo gli occhi e le orecchie.

Tutto questo per dirti che dare una direzione alla tua vita, trovare i motivi per cui ti alzi ogni giorno dal letto al mattino, cercare di capire su quali valori stai impostando la tua esistenza è di vitale importanza per vivere davvero. Il cammino di scoperta di sé non è facile e può anche essere faticoso, ma se decidi di impegnarti in questo percorso di scoperta avrai solo da guadagnarci. 


37. Copione

 

Ti è mai capitato di chiederti perché tendi a “preferire” determinate persone piuttosto che altre?

O perché finisci spesso per avere un certo tipo di relazioni? O perché sembra che, con certe persone, ti comporti sempre in un dato modo?

Se ti sei posta/o queste domande almeno una volta nella vita, vuol dire che, molto probabilmente, stai scegliendo (anche se la maggior parte delle volte non lo sai!) di adottare un determinato copione di vita.

E, come se tu fossi a teatro, “interpreti” una data parte: questo ruolo può essere più o meno cangiante in base alle situazioni, ma ricalca un determinato modello. In altre parole, ciò che sei oggi e il tuo modo di porti in relazione con gli altri è, quasi sempre, frutto del tipo di relazioni che hai sperimentato in passato.

Frutto di quella che in gergo si chiama “storia di attaccamento”: infatti, il tipo di attaccamento che hai stabilito quando eri molto piccola/o per potertelo ricordare in maniera cosciente ha un’influenza sulle relazioni che hai oggi.

Influenza che può portarti, nella maggior parte dei casi, o a replicare in maniera puntuale e più o meno identica il copione che hai già sperimentato, o a distaccarti dal tuo passato, magari comportandoti all’opposto o in una maniera diversa rispetto a ciò che è stato prima.

Infatti, le primissime relazioni della nostra vita sono fondamentali per lo strutturarsi della nostra personalità e anche perché influenzeranno il nostro modo di porci in relazione agli altri.

Attraverso la relazione primaria con la nostra figura di attaccamento ci formiamo, infatti, degli “schemi” rispetto a chi siamo, a quanto siamo o non siamo amabili, rispetto a chi sono gli altri e a come funziona il mondo in genere. Questi modelli interni, che si chiamano Modelli Operativi Interni, andranno a riproporsi nelle nostre relazioni successive, generando appunto i nostri “copioni di vita”.

Quindi, se da un lato ciò che hai sperimentato da piccola/o ti segna per sempre, dall’altro ciò che sperimenterai in seguito ti può anche salvare, andando in qualche modo a “correggere” le tue impressioni rispetto alla relazione primaria che hai avuto.

Infatti, il tuo attaccamento passato può essere “rivisto” proprio grazie e attraverso una nuova relazione. Una relazione sana può favorire la soddisfazione dei bisogni di attaccamento non soddisfatti in precedenza e porre delle ottime basi per la tua crescita psicologica.

Ed è qui che, per certi versi, si nasconde la salvezza: se io ho sperimentato un attaccamento non proprio felice nella mia vita posso tendere a replicarlo nel mio copione, ma posso anche sperimentare delle altre relazioni affettive che vanno a modificare in positivo gli schemi interni che mi sono costruita/o nel corso del tempo.

Ecco come, per esempio, una relazione sentimentale particolarmente sana o magari anche la relazione che si instaura con il terapeuta, possono essere lette come “esperienze emozionali correttive” che vanno a mitigare gli effetti di relazioni di attaccamento disfunzionali.

Inoltre, imparare a capire come funzioni, ma soprattutto andare a rivedere senza paura la tua storia passata può essere solo motivo di salvezza: se prendi consapevolezza rispetto alla tua storia, ai bisogni che non sono stati soddisfatti, a ciò che ti è mancato, oppure anche rispetto a ciò che è andato bene, potrai più facilmente vivere le tue nuove relazioni di attaccamento adulto con serenità e pienezza


38. Acting

 

Il significato letterale di questa parola è “agito”, nel senso di azione che viene messa in atto.

Nel linguaggio psicologico, in particolare psicoanalitico, l’acting si verifica nel momento in cui esprimo un vissuto emotivo forte e conflittuale usando l’azione e non la parola.

Leggilo come una sorta di “impulso a scaricare” una tensione interna, mettendola all’esterno fuori da te.

La tendenza ad agire i tuoi vissuti emotivi potrebbe essere parte della tua personalità e potresti ritrovarti ad essere aggressiva/o verso gli altri, o ad agire di impulso in modo non funzionale, proprio perché fai fatica a mettere in atto una riflessione che prevenga l’agito negativo.

Come puoi ben immaginare, non sempre questa tendenza è positiva, anzi la maggior parte delle volte non lo è, e ti porta a comportanti in un dato modo senza riflettere sulle potenziali conseguenze negative delle azioni che intraprendi.

Tradotto in pratica, per esempio, se sto parlando di quanto mia madre mi ha ferito in una data situazione e provo una rabbia spropositata, potrebbe succedere che io non mi limiti solo ad esprimerla a parole ma abbia l’impulso di distruggere qualcosa.

Ecco che, in questi termini, la terapia serve in qualche modo a dare un “limite” a tutto questo, infatti una delle regole fondamentali del setting è proprio quella del non agire.

Forse ti sembrerà esagerato e castrante, ma ti assicuro che, oltre a tutelare sia te che il tuo terapeuta da possibili rischi anche grossi, questa regola ti permette di dare un contenimento a quella “tempesta emotiva” proprio attraverso la parola.

Ecco che, allora, la terapia rappresenta uno strumento importante per la regolazione delle tue emozioni e dei tuoi comportamenti: regolazione che all’inizio arriva da fuori attraverso il contenimento e le regole del setting, ma che poi viene gradualmente interiorizzata. 


39. Costrutti

 

I costrutti sono delle dimensioni di significato in base alle quali si decodifica e classifica l’esperienza.

Vanno a strutturare il concetto che abbiamo di noi stessi e ci servono per vedere, valutare e fare astrazioni su di noi, gli altri e il mondo esterno.

I costrutti sono, quindi, come delle “mappe” di natura soggettiva che elaboriamo per percorrere il “territorio psicologico” della nostra vita.

Mediante tali mappe, infatti, le Persone formulano costruzioni ed ipotesi, che le aiutano a prevedere e controllare gli eventi della propria vita.

In situazioni di equilibrio interiore, i costrutti non si presentano come verità assolute e immutabili, anzi sono formulati in forma provvisoria: leggo la mia realtà seguendo un dato costrutto finchè questo mi è utile, ma sono anche pronta a metterlo in discussione e cambiarlo se mi rendo conto che non mi serve più.

Infatti, un costrutto funzionale è cosciente, verificabile, non imperativo e relativo ad una situazione specifica, modificabile e aggiornabile, e permette la soddisfazione dei propri bisogni. Per esempio, dire che “in questo periodo mi fa stare bene sentirmi amato dalle persone che amo” suona molto diverso dal dire “devo essere amato da tutti qualsiasi cosa accada o faccia”.

Tuttavia, capita che le Persone vengano immobilizzate all’interno delle loro stesse costruzioni, come se i verdetti che esprimono su loro stessi o sugli altri siano dei fatti inoppugnabili, e non semplici ipotesi e sul proprio comportamento.

In questo caso parliamo di costrutti disfunzionali, cioè irrealistici, catastrofici, rigidi, imperativi e categorici, non verificabili, assolutistici e non modificabili, spesso inconsapevoli e difficili da sradicare. Per farti capire, un esempio di costrutto disfunzionale può essere qualcosa tipo “il mio passato condizionerà sempre il mio presente e il mio futuro”.

Finchè ti rapporterai a te stessa/o e alla tua vita usando dei costrutti disfunzionali farai fatica a rispondere efficacemente alle sfide della vita: in tal senso, la psicoterapia è anche una grande opportunità per lavorare sui propri costrutti, rendendoli più funzionali e flessibili  nel qui ed ora dell’esperienza che fai.


40. Attualizzazione

 

Hai mai fatto caso ad una ferita che sanguina? Nel tempo la tendenza del nostro organismo sarà quella di tendere verso la guarigione: si mobiliteranno le piastrine per far coagulare il sangue, e via dicendo.

Questo per dirti che la naturale tendenza del nostro corpo, ma anche della nostra psiche, è quella di tendere verso la nostra attualizzazione.

Immagina la spinta all’attualizzazione come una forza che tende allo sviluppo di tutte quelle capacità utili a mantenere, autoregolare ed autorealizzare il tuo organismo in senso generale.

Attualizzazione, infatti, significa realizzare il nostro potenziale, tendere verso un livello di maggiore equilibrio e benessere, diventare pienamente noi stessi. La “tendenza attualizzante”, termine usato in gergo per definire questa “spinta” verso l’autorealizzazione, riesce ad esprimersi quando le persone sono in accordo con questa loro natura.

Infatti, se le condizioni sono favorevoli, essa si rivela come un processo in continuo divenire nel quale l’individuo sviluppa il suo naturale potenziale di autorealizzazione, divenendo una persona sempre più funzionante.

Non sempre gli eventi della vita, però, ce lo permettono: può succedere che facciamo delle esperienze che ci allontanano dalla nostra attualizzazione e non ci permettono di realizzarci come vorremmo. Allora, la psicoterapia può intervenire per aiutarti a ritrovare e ripristinare questa forza interna che possiedi già, ma che per qualche motivo hai perso.  


41. Simbolizzazione 

 

Possiamo definire il termine “simbolizzazione” come un processo mediante il quale la Persona prende coscienza di un’esperienza vissuta.

La simbolizzazione sarebbe, perciò, ciò che in gergo si chiama rappresentazione, cioè un “filtro cognitivo” che permette di rendere consapevoli determinate esperienze e, quindi, di integrarle nel concetto di sé.

Nello specifico, immagina l’esperienza come tutto ciò che fa parte della tua dimensione psichica in un determinato momento, nei suoi elementi sia consci che inconsci.

In ogni momento buona parte della tua esperienza è simbolizzata, cioè consapevole, perché riesci a rappresentartela; esistono, però, anche delle esperienze che non sono consapevoli, cioè non simbolizzate.

Delle esperienze non simbolizzate fanno parte sia quelle minacciose per il concetto di sé, che vengono quindi eliminate o distorte, sia quelle esperienze non in relazione o irrilevanti per il sé, che vengono ignorate rimanendo non simbolizzabili.

Da questo possiamo capire che per avere un buon accordo tra il nostro sé e l’esperienza, è importante che ci sia la presenza continua del filtro cognitivo rappresentato dalla simbolizzazione, in modo da poter vivere la nostra esperienza senza negazioni o distorsioni.

La psicoterapia è un grande strumento per “allenare” la tua capacità di simbolizzazione, sia perché ti aiuta ad entrare in contatto con la tua esperienza e, quindi, a vedere quando la distorci o la neghi, ma soprattutto ti permette di trasformare in parole quello che senti rendendolo dicibile, cioè simbolizzabile. 


42. Disagio 

 

Possiamo intendere il disagio come una situazione non comoda, uno “sconfort” più o meno momentaneo che, però, ha delle ripercussioni non indifferenti sulla tua vita.

Molto spesso è proprio questa sensazione di disagio che ti spinge ad andare in terapia: senti che qualcosa non va, non stai bene con te stessa/o, senti che ti manca qualcosa.

Ed è proprio da una sorta di “carenza di base” che parte il tutto: non sempre, infatti, la Persona si trova in contesti facilitanti che permettono il soddisfacimento dei suoi bisogni e questo può determinare uno stato di disagio e disorganizzazione.

Alla base del disagio psichico esiste, quindi, una sorta di incongruenza tra la tua esperienza attuale e i bisogni che senti di avere, o di cui non hai nemmeno consapevolezza. Tendi, infatti, a negare ciò che senti e a non vedere i tuoi bisogni: non lo fai apposta, questo è ovvio!

E’ molto probabile che tu abbia imparato a fare questa operazione automatica perché non potevi fare altro per adattarti al tuo contesto di vita. Il punto, però, è che ti resta dentro una sorta di disaccordo e, magari, diventi ansiosa/o non sapendo nemmeno perché.

Spesso, infatti, l’incongruenza nasce proprio da un non-riconoscimento dei tuoi bisogni e dal non avere consapevolezza di essi; questo impedisce lo sviluppo armonico della personalità ed ostacola l’autodeterminazione.

Per questo, il clima facilitante della psicoterapia avrebbe proprio la funzione di facilitare la Persona nel riconoscimento del proprio sentire e dei propri bisogni, fungendo da esperienza emozionale correttiva in grado di abbassare il divario esistente tra esperienza e concetto di sé. Infatti, possiamo dire che una Persona pienamente funzionante è in contatto con se stessa e i propri bisogni, riuscendo ad integrare la sua esperienza interiore con il concetto che ha di sé. 


43. Restituzione

 

Possiamo definire restituzione un momento di incontro tra il terapeuta e il paziente, dedicato a fare un po’ il “punto della situazione”.

Di solito nella restituzione il terapeuta rimanda al paziente un feedback rispetto a quello che ha visto di lui, spesso in relazione ai passi futuri da intraprendere.

A questo proposito, la restituzione assume tre forme diverse all’interno della psicoterapia.

Abbiamo una restituzione che definirei “conoscitiva”, nel senso che viene fatta all’incirca dopo i primi 4/5 incontri al fine di confrontarsi con il paziente rispetto a ciò che è emerso dalla consultazione, con un’attenzione particolare a come le difficoltà manifestate si inseriscono all’interno della propria storia di vita.

In questo tipo di restituzione si prova a capire insieme al paziente cosa si può fare per affrontare le difficoltà riportate, quindi si stabiliscono degli obiettivi, oltre a riflettere sulla relazione che si è creata, chiedendosi se davvero si può lavorare insieme o meno.

Un’altra restituzione molto importante è quella che si fa a fine percorso: questo tipo di restituzione rappresenta una sorta di bilancio rispetto a ciò che si è fatto, ai risultati ottenuti e agli ostacoli possibili che si sono manifestati lungo il cammino.

Infine, esistono delle restituzioni “periodiche”, nel senso che ogni tanto è doveroso che il terapeuta si fermi ad analizzare insieme al suo paziente come sta andando il percorso insieme. Ogni professionista ha i suoi tempi e i suoi modi per fare questo, ma l’importante è che questo tipo di restituzione venga fatta.

In primis perché rende il paziente consapevole e protagonista di un percorso che è lui in prima persona a fare, poi perché alimenta ancora di più l’alleanza e la cooperazione tra le due Persone, permettendo anche di intervenire nelle situazioni di criticità e/o blocco che possono arrivare.

 

Diffida, quindi, da quei professionisti che hanno la tendenza a non spiegarti nulla, a non farti percepire l’idea di una “progettualità comune”, a non darti e chiederti un feedback rispetto al percorso che stai facendo.