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"E le mie guance si tinsero di rosso..."

Vergogna, inadeguatezza e dintorni


Ti è mai capitato di voler sparire mentre sei ad una riunione di lavoro o, semplicemente, al bar con il gruppo dei tuoi amici?

Qualcuno ti rivolge la parola e tu sprofondi in un baratro perché noti che l’attenzione di tutti si è spostata su di te e non sai cosa rispondere.

Gli altri ti stanno guardando, è questo il problema: a te lo sguardo degli altri fa tanta paura, ti rende “vulnerabile”, ti fa provare l’angoscia tremenda di essere scoperta/o per ciò che sei.

E se gli altri ti conoscessero davvero, più da vicino, molto probabilmente scoprirebbero quanto sei inadeguata/o e incapace. E ti lascerebbero, senza se e senza ma.

Ecco perché, allora, durante le feste ti ritrovi magari a fare da tappezzeria. Perché non sopporti di dover spegnere le candeline davanti a tutti il giorno del tuo compleanno. Perché quando sei a lavoro ti proteggi dietro lo schermo del tuo pc, sperando che nessuno ti rivolga più di tanto la parola.

Questo è, più o meno, il vissuto di chi ha dentro di sè un nucleo legato alla vergogna e al senso di inadeguatezza.

Anche se oggi viviamo nell’epoca del mostrarsi a tutti i costi, del “mettersi a nudo” esprimendo una finta autenticità, del mettersi in prima fila senza paura, in realtà la dimensione della vergogna è rimasta lì anche se non se ne parla più.

La vergogna è stata per tanto tempo dimenticata anche dal mondo scientifico, che ha reputato inutile occuparsene. Guarda caso è stata definita la “cenerentola delle emozioni” dal mondo della psicologia, come a suggellare anche con un appellativo il triste destino a cui è andata incontro nel corso del tempo: quello di essere “snobbata” perché vista come poco rilevante o meno degna di attenzione rispetto ad altre emozioni o ad altri aspetti psicologici.

Da qualche tempo, però, il discorso sulla vergogna si è riacceso, e le riflessioni che sono nate in questi ultimi decenni la fanno rientrare a pieno titolo nel novero delle emozioni fondamentali, dandole anzi un’importanza rilevante dal punto di vista clinico

 

La vergogna come dimensione profonda di sé.

 

La parola vergogna deriva dal latino “vereri (che significa riverire, avere rispetto, temere), da cui si arriva a “verecondia”, cioè pudore, imbarazzo. Questo significato rimanda ad una dimensione a mio avviso molto importante legata alla vergogna: quella del sentirsi “da meno”. Il senso di rispetto che il termine latino si porta dietro è legato proprio a quella sorta di “disparità” che chi prova vergogna sente nei confronti degli altri.

E’ come se ci fosse un continuo “paragone” rispetto agli altri, che ovviamente sono sempre posti su un piedistallo e sono “in alto” rispetto alla posizione di chi si sente inadeguato che è, di conseguenza, sempre in basso.

Possiamo dire, in tal senso, che la vergogna diventa “protettiva” proprio perché ci blocca dal mostrarci, e ci mette in salvo dal confronto con tutti questi altri che stanno in alto. Se sento vergogna, infatti, tenderò a non farmi vedere, a non esprimere le mie opinioni, a non entrare in intimità con gli altri, a stare all’ultimo banco sperando di non essere scoperta.

Se, da un lato, la vergogna è come un campanello d’allarme che in certi casi ha anche una funzione protettiva, dall’altro può essere una dimensione molto limitante. E lo è proprio perché chiama in causa il nostro senso di identità.

La dimensione della vergogna, infatti, non è solo legata all’immagine sociale e al confronto, ma è soprattutto una dimensione che ha a che fare con la tua identità profonda. Il senso di inadeguatezza che certe Persone vivono non è legato ad una prestazione, competenza o capacità, ma proprio in toto a tutto il loro essere, a prescindere da ciò che si dice o si fa.

Questo la rende, per esempio, molto diversa dalla colpa a cui spesso viene, invece, equiparata: la colpa ha a che vedere con il rimorso per un qualcosa che si è fatto, la vergogna ha, appunto, a che vedere con chi si è.

Non so se riesco a rendere l’idea, ma chi vive una dimensione profonda di vergogna si sente proprio difettoso, sporco, inadeguato, indegno, debole, non all’altezza.

Quindi, per sentire la vergogna è fondamentale che ci sia una “coscienza di sé” e poi un contatto rispetto al mondo esterno, che diventa il metro di paragone fondamentale. Questo per dirti che la vergogna, a differenza di altri tipi di emozioni che sono innate e universali, è un’emozione complessa, che si struttura nel tempo man mano che il bambino cresce, e che può essere anche molto diversa tra una cultura e l’altra.

Quello su cui vorrei farti un attimo riflettere è che, se ti senti di base inadeguata/o, quasi certamente penserai che gli altri non potranno mai amarti per ciò che sei: ecco che, allora, inizi a costruirti una “maschera”, quello che in gergo si chiama Falso Sé.

Non è che lo premediti o lo fai apposta, attenzione! Le tue esperienze di vita ti insegnano che se vuoi essere voluta/o bene e accettata/o devi nasconderti, devi cercare in tutti i modi di non farti scoprire, devi assecondare il più possibile gli altri: in questo modo il nucleo profondo della tua inadeguatezza sarà protetto, messo sotto il tappeto, e tu ti potrai garantire la vicinanza degli altri.

Per questo arrossisci quando magari ti senti osservata/o o al centro dell’attenzione, per questo difficilmente prendi la parola in riunione, per questo tendi a passare inosservata/o: solo così hai l’illusione che gli altri non vedranno quanto “orribile” sei in realtà.

Ecco di nuovo la funzione “protettiva”, ma anche disfunzionale, della vergogna: ti fa perdere contatto con te stessa/o, non ti fa essere libera/o, e non ti permette di entrare davvero in relazione con gli altri.

Possiamo dire che quello del Falso sé è uno dei modi più “gettonati” per convivere con questo profondo senso di non andare bene, ma ci possono essere anche quei casi in cui ti arrendi e mostri palesemente questo stato interno, oppure, di contro, reagisci esaltandoti in maniera narcisistica.

Come anticipato all’inizio, viviamo in una società dove sembra che, paradossalmente, manchi proprio la dimensione della vergogna e del pudore: ci si mostra troppo, non esiste quasi più una dimensione privata e tutto viene condiviso con tutti. Ma in realtà, forse, questo è solo un modo per esorcizzare un senso di inadeguatezza e vergogna profonda, che vengono lenite da qualche like e due applausi.

Ma da dove arriva tutto questo?

 

Da dove arriva la vergogna?

 

Non so se sei d’accordo, ma la vergogna ha parecchio a che vedere con lo sguardo: spesso chi sperimenta una dimensione di profonda inadeguatezza vive molto male lo sguardo degli altri su di sé, e a sua volta spesso non riesce a guardare negli occhi gli altri.

E, oserei dire, proprio lo sguardo può essere una chiave importante per comprendere da dove arriva la tua vergogna. Se ci pensi un attimo, lo sguardo dell’altro ti fa esistere, e fa esistere soprattutto un neonato che dipende totalmente dallo sguardo di sua madre.

Come diceva un grande psicologo di nome Winnicott, gli occhi della mamma diventano uno specchio importante per il piccolo d’uomo: è proprio attraverso quegli occhi che lui si vede e impara a conoscersi, ed è proprio dall’immagine di sé che vede riflessa in quegli occhi che si andrà a costruire la sua identità.

Capisco che, forse, quello che ti sto dicendo può risultarti troppo “filosofico” e complicato, quindi lo traduco in parole povere: se tua madre non ti ha guardato perché era troppo stanca, troppo occupata o troppo triste per farlo, dentro di te mancherà qualcosa.

Se sei stata guardata/o, ma quegli occhi non erano “vivi” lì insieme a te ma erano altrove, forse imparerai che non sei così importante. Se, ancora, quegli occhi ti guarderanno in maniera delusa, critica o, ancora peggio, minacciosa imparerai che sei proprio un essere disgustoso, inadeguato, buono a nulla.

Viceversa, se gli occhi di mamma ti trasmettono amore, ammirazione, desiderio, vita, gioia, piacere di stare con te, ti sentirai intera/o e pieno, e quasi sicuramente costruirai un’immagine più positiva ed equilibrata di te stessa/o.

Ho reso un pochino l’idea? Certo, non è che adesso tutto passa sempre e solo dallo sguardo di chi si è preso cura di noi quando eravamo piccoli, ma ti posso assicurare che una dimensione così profonda come quella della vergogna si struttura inconsciamente già a partire da queste prime interazioni.

Infatti, se la relazione di attaccamento non appaga il normale bisogno di sentirsi “speciale” ed importante, è molto probabile che non ti sentirai “in sintonia” con quella Persona, non ci sarà quello che in gergo si chiama rispecchiamento.

Il tuo adulto di riferimento non sarà, cioè, sintonizzato con i tuoi bisogni ma con i suoi. Non ti darà diritto di esistere attribuendoti stati d’animo, pensieri, necessità, ma metterà al centro solo i suoi. E tu cosa potrai fare se non “piegarti” a quello che c’è, modulando ciò che sei sulla base di ciò che l’altro si aspetta da te?

Uno sguardo amorevole ti rende tale, uno sguardo critico o non sintonizzato ti costringe a non vederti davvero, a rinunciare a delle parti di te.

E questo, poi, continua magari gli anni successivi, dove impari che per essere accettata/o devi fare il “bravo bambino”, dove la critica è all’ordine del giorno e non puoi sentirti libera/o di agire come ti sentiresti di fare.

Nei casi peggiori, spesso si pensa che educare voglia dire ridicolizzare, criticare la Persona in toto e non il comportamento specifico, minacciare di “togliere l’amore” se il bambino non ubbidisce.

E questo come può farti sentire se non inadeguata/o, sola/o, che non vai bene, che non sei all’altezza?

La vergogna si struttura proprio nello scarto tra ciò che senti di essere oggi (di base difettosa/o) e l’ideale altissimo che, purtroppo, si è costruito dentro di te: la vergogna di annida proprio lì, in quello spazio tra la realtà e ciò che vorresti essere in maniera irrealistica.

E, magari, ti accusi e ti prendi a pesci in faccia proprio come hai imparato, più o meno inconsapevolmente, ad essere trattato da fuori: non fai altro che prendere il testimone dentro di te, passare da fuori a dentro, diventare tu l’aguzzino di te stessa/o.

 

Ascoltiamo la vergogna.

 

So che leggere queste cose può essere molto doloroso per te, e mi dispiace tanto per questo. A volte, sentirsi spiattellare così bruscamente una vita di grandi sofferenze non è il massimo, anzi. Però, credo anche tanto che iniziare a conoscere le nostre ferite possa essere già un primo passo per prendersene cura.

Non esistono ricette preconfezionate per “guarire” dalla vergogna, non è mica una malattia! Inizia a vederla come una “copertina” che è stato necessario metterti addosso per sopravvivere nel tuo mondo e che, nonostante tutto, ti ha fatto arrivare fino a qui.

In molte situazioni provare vergogna è assolutamente funzionale e adattivo, proprio perché ci protegge dal fare brutte figure, dal prendere rischi eccessivi, dall’essere feriti gratuitamente.

Il primo passo, allora, è proprio quello di iniziare a chiederti quando la tua vergogna può esserti di aiuto e quando, invece, no. Certo, non è così facile capirlo, né è facile “estirparla” come un’erba secca: nessuno ti chiede questo e, anzi, se per caso qualcuno ti invitasse a farlo diffida delle sue intenzioni.

La vergogna non è un male da estirpare o una malattia da cui guarire: leggila come un messaggio importante che arriva da dentro di te e che ha solo bisogno di essere ascoltato profondamente e, poi, preso in braccio. Si, preso in braccio.

Come quella parte di te bambina che si sente inadeguata e sbagliata, e che ha solo bisogno che tu te ne prendi cura e che inizi a farle capire che dentro di lei ci sono anche tante bellezze.

Servi tu per iniziare a dire a quella parte che soffre che, passo dopo passo, può provare a sperimentare la libertà di essere così com’è, e che non sarà lasciata sola da chi davvero le vuole bene. Ci si può prendere il rischio di mostrarsi per ciò che si è? Io credo di si, se solo si accetta di cercare quelle relazioni “nutrienti” che possono davvero sostituire gli schemi che ci siamo creati nel corso della vita.

Quindi, impara a conoscere la tua vergogna.

Poi, inizia davvero ad ascoltare cosa ha da dirti, leggendo la tua storia di vita senza giudicarti. La parola che mi viene da dire è accoglienza: accoglienza di quella parte di te che si sente uno schifo e che in certi momenti vorrebbe sprofondare.

Infine, affetto e scommessa: perché dopo che hai fatto spazio a tutto questo dentro di te, che ti sei accolta/o in questa dimensione ferita, puoi dimostrarti affetto e iniziare a guardarti con occhi benevoli. E puoi scommettere sul fatto che questi occhi possono diventare più obiettivi e, soprattutto, pieni di fiducia nel fatto che dentro di te c’è anche qualcosa di buono.

 

 

Spero che questa panoramica sul tema della vergogna ti sia stata utile e, come sempre, voglio lasciarti qualche spunto di lettura se vuoi approfondire:

- “Vincere la vergogna, guarire i traumi. Oltre la paura e l’insicurezza, riconquistare l’amore verso se stessi” di Krishnananda e Amana.

- “Persone che scompaiono. Vergogna ed apparire”, di Benjamin Kilborne.

- “Vincere la vergogna”, di Windy Dryden.

- “Le ferite dell’anima. I meandri della vergogna”, di Carlo Cazzullo.

 

 

 

  

 

 

Un caldo benvenuto a chi è approdato per caso su questa pagina e a chi ci è arrivato di proposito, insieme ad un grosso arrivederci a chi vorrà tornare a trovarmi.