· 

"Non lasciarmi!"

Uno sguardo sulla ferita dell'Abbandono


 

Esistono abbandoni di varia natura, ma tutti accumunati da una cosa: un’assenza.

Ed è così che si sente chi vive la ferita dell’Abbandono: è a contatto giorno dopo giorno con un’assenza di qualche tipo.

Se vivi o hai vissuto questo tipo di ferita, conoscerai molto bene la sensazione di vuoto totale che si prova quando senti di non avere il supporto di Persone a te vicine, o quando chi ami è fisicamente o emotivamente lontano da te.

È un senso di vuoto che fa molta paura, che ti fa provare un’angoscia indescrivibile e, proprio perché diventa difficile da tollerare, ti porta a ricercare in maniera disperata la presenza degli altri, rendendoti incapace di stare da sola/o sia in senso concreto che figurato.

Tutto questo ti farà sentire probabilmente inadeguata/o, avrai la sensazione che senza l’altro non vali nulla e non sei nulla, che hai un senso solo se stai vicino all’altro. Perdi di vista il tuo valore, vivi per l’altro, non ti butti nelle situazioni perché da sola/o pensi di non potercela fare, vivi continuamente nel terrore della solitudine.

Questa è una delle ferite più antiche che si possano avere, perché la maggior parte delle volte viene sperimentata in tenera età, quando il nostro apparato psichico non è del tutto formato e attrezzato per fronteggiare determinati traumi. In tal caso, i segni di questa ferita saranno più evidenti e incideranno sul tuo modo di stare nelle relazioni successive e sul tuo assetto emotivo.

 

Andiamo alle origini

 

Da cosa può essere causata questa ferita?

Per schematizzare il più possibile, dividiamo le origini di questa ferita in 4 grandi macrocategorie: aspetti biologici, perdite e separazioni di varia natura, instabilità e iperprotezione.

Se iniziamo a guardare i fattori biologici, la ricerca scientifica ci ha dimostrato che abbiamo tutti una predisposizione biologica legata alla separazione. Tradotto in altri termini, siamo predisposti biologicamente a reagire in un certo modo se veniamo separati dalla nostra figura di attaccamento. Questo perché un cucciolo non potrebbe sopravvivere senza la mamma e, quindi, è biologicamente programmato per ricercare la sua vicinanza, costi quel che costi.

Bowlby fu uno studioso importantissimo del legame di attaccamento mamma – bambino, e le sue ripetute osservazioni dei distacchi e dei ricongiungimenti in questa diade gli hanno permesso di trarre delle conclusioni importanti su come funzioniamo.

Di base, a livello innato, siamo predisposti a provare in primis angoscia di fronte alla separazione: protestiamo, abbiamo paura, ricerchiamo in modo frenetico la nostra figura di riferimento. Poi, arriva la disperazione, l’abbattimento totale e la resa quando capiamo che quella Persona non tornerà da noi: questo “gettare la spugna”, però, ci permette pian piano di guardarci intorno e cercare di instaurare nuove relazioni di attaccamento.

Ecco che, allora, il cucciolo abbandonato prova a riorganizzarsi e, se la sua mamma torna, è molto probabile che avrà una reazione di distacco, di rabbia, perché si è sentito abbandonato. Nella maggior parte dei casi, però, la situazione rientra e il piccolo rinnova la sua relazione di attaccamento con la mamma.

Ti dico questo per farti capire che partiamo tutti da una stessa “dotazione di base”, ma ti dico anche che ci possono essere degli aspetti temperamentali unici che predispongono maggiormente una Persona rispetto che un’altra all’ansia da separazione.

Questo significa che, per predisposizione personale, ci saranno Persone più in grado di fronteggiare la normale reazione di angoscia alla separazione e altre meno. Se, poi, ci aggiungi il contesto e i fattori relazionali capisci che una caratteristica di base viene acuita o meno dalle condizioni in cui ti trovi a nascere e crescere.

E qui veniamo alla seconda macrocategoria, quella che ha a che fare con tutte quelle situazioni di separazione che possono accadere nella vita: morte prematura di un genitore, ricoveri ospedalieri con conseguenti periodi di assenza della figura di riferimento, divorzi nei quali si perde il contatto con uno dei genitori, abbandono in senso stretto subito da parte di un genitore, affidamento prolungato dei bambini a baby sitter collegi e simili.

In questi casi avviene un abbandono nel senso letterale del termine, dove il bambino è materialmente lontano dalla sua figura di riferimento e questo causa, ovviamente, una ferita molto grande che è ancora più complessa se questa perdita avviene quando il bambino è molto piccolo.

Altra macrocategoria è quella di un abbandono che potremmo definire “emotivo”, nel senso che ci riferiamo a tutte quelle situazioni nelle quali la figura di riferimento non è fisicamente assente, ma non è disponibile dal punto di vista affettivo.

Pensa a un genitore con problemi di dipendenza o di depressione grave, o che sta affrontando varie situazioni di stress che lo portano a non essere disponibile per suo figlio, o a delle situazioni di fragilità personale (tipo disturbi di personalità) dove la Persona oscilla tra momenti di presenza e calore e momenti di grande rabbia e rifiuto verso il bambino.

In tutte queste situazioni, molto probabilmente, il piccolo sperimenterà forse la cosa peggiore di tutte: l’instabilità.

Un bambino ha bisogno di costanza e confini ben definiti, e se invece sperimenta delle montagne russe emotive dove non sa mai che parte del genitore si ritroverà davanti in quella giornata o, peggio ancora, in quel momento. Sentirà di non poter contare su quella figura di riferimento e avrà davanti una sensazione di vuoto indicibile.

Ma siccome siamo programmati per ricercare la vicinanza della figura di attaccamento, il cucciolo sarà costretto in ogni caso ad adeguarsi alle tempeste emotive e all’imprevedibilità, perchè questa alternativa è sempre meglio del nulla totale.

E qui ti faccio un brevissimo cenno, per esempio, al mondo delle dipendenze affettive: pensa a tutte quelle situazioni in cui la Persona che ami è la stessa che ti fa del male, ma tu non sei in grado di lasciarla. Questa dinamica è l’esempio lampante di una ferita di Abbandono legata all’instabilità.

Per finire, arriviamo alla quarta macrocategoria quella che, in apparenza, sembra “positiva” rispetto alle altre: il troppo amore. Troppo amore e troppa protezione soffocano, non ti permettono di esplorare e sperimentare, ti tengono chiusa/o dentro una campana di vetro rendendoti dipendente e incapace di individuarti.

E’ questo il caso di ferite da Abbandono dove ciò che si abbandona è proprio la propria Persona, il proprio valore, la propria efficacia. E, in queste situazioni, si vive una profonda angoscia di separazione perché ci si sente immaturi per la vita senza l’aiuto e l’appoggio della nostra figura di riferimento.

Questo può succedere anche in situazioni dove ci sono bambini cagionevoli di salute, che vengono rinchiusi in una campana di vetro e che, magari anche a 40 anni, rimangono “malati” e bisognosi di cure e attenzioni anche se, in realtà, non ce n’è un reale bisogno.

 

Segni e segnali

 

Le nostre ferite lasciano dei segni evidenti, nel corpo nella psiche e nelle relazioni.

Una fetta importante del mondo della psicologia sostiene che il corpo sia il teatro d’azione della maggior parte delle nostre ferite e dei nostri traumi. Questa è in sostanza la posizione della psicosomatica, della bioenergetica e di tutti quegli approcci che mettono anche il corpo al centro dell’osservazione e dell’intervento sulla Persona.

Posizioni molto attuali, che ci insegnano a guardare il corpo e i suoi segni, come anche tutti i “malesseri” fisici, con un’attenzione particolare alle loro origini psichiche.

In un libro ormai datato Lise Bourbeau fa una sorta di identikit fisico di chi vive la ferita dell’Abbandono, andando a descrivere proprio i tratti fisici e le malattie più frequenti di cui potrebbe soffrire chi ha questa ferita.

Prendi tutto questo con le pinze, ovviamente. Ognuno di noi è unico e ha la sua storia, che non può ridursi ad una forma del corpo o ad una lista di sintomi ma, senza dubbio, ci sono degli aspetti caratteristici che ci possono aiutare a leggerci anche dal punto di vista fisico.

Secondo questa autrice, la caratteristica principale del corpo di queste Persone è l’ipotonicità: parliamo, cioè, di corpi “flosci”, molli, che fanno fatica a reggersi da soli. Gambe deboli, schiena curva, corpo allungato e sottile, e braccia troppo lunghe che sembrano pendere lungo il corpo come se non avessero forza. Sguardo magnetico, con grandi occhi tristi e voce infantile. In poche parole un corpo “bisognoso” e debole, che ti dà l’idea di dover essere sorretto e sostenuto.

Le malattie tipiche di chi ha questa ferita sarebbero asma e tutto ciò che ha a che vedere con la respirazione, problemi alla schiena, ipoglicemia, emicrania, miopia, malattie rare o incurabili.

Se andiamo a vedere i segni psichici più evidenti di questo tipo di ferita, ritroviamo in primis l’incapacità di stare da soli e la profonda paura della solitudine oppure, in controtendenza, una propensione verso l’isolamento causata dal dolore per l’abbandono subito.

Per fartela semplice, potrebbe essere che la ferita dell’Abbandono ti porti ad essere totalmente dipendente dall’altro, sia in termini concreti (bisogno che qualcuno si prenda materialmente cura di te, per esempio cucinando o tenendo pulita la casa, che ti risolva tutta una serie di incombenze del vivere quotidiano come fare la spesa o pagare le bollette, o bisogno che un altro “curi” le tue malattie fisiche) che emotivi (chiedi spesso consiglio, non prendi decisioni da sola/o, hai sempre bisogno di essere spronata/o).

Oppure, viceversa, questa ferita può portarti ad una “controreazione” rimanendo indipendente sul piano concreto, ma molto dipendete sul piano emotivo. Detto in altri termini, parliamo di quelle situazioni nelle quali una Persona riesce anche a vivere da sola e a gestirsi, ma si isola emotivamente (e quindi rimane lo stesso dipendente da ciò da cui scappa ...) perché ha un’angoscia profonda di soffrire di nuovo: questo non le permette di mettersi in gioco davvero e di entrare in relazione profonda con gli altri.

La dimensione di base che accomuna entrambi i vissuti è una visione “difettosa” di se stessi: “se l’altro mi abbandona è perché io non valgo nulla, o mi abbandonerà nel momento in cui si renderà conto che non valgo nulla”. Ed ecco arrivare i disperati tentativi di tenersi stretta l’altra Persona, magari diventando disponibili e sottomessi, o tenendo il partner legato a sè con la sessualità, e via dicendo.

E qui veniamo ai segnali relazionali tipici di chi ha questa ferita: gelosia e possessività molto evidenti, angoscia costante di fronte a tutte le separazioni dal partner (anche solo se va a lavoro), paura che il partner muoia o che se ne vada per sempre, reazioni esagerate di rabbia o malessere se il partner prova a fare delle cose per sé o senza di voi, certezza rispetto al fatto che prima o poi la Persona di riferimento vi lascerà, tendenza a ricercare sempre la presenza degli altri, comportamento servile e fin troppo da “crocerossina”.

Oppure, in reazione, tendenza a non avere relazioni stabili e durature, distacco e chiusura in se stessi, isolamento, diffidenza e difficoltà ad entrare in intimità con l’altro.

 

Prendersi cura della ferita dell’Abbandono

 

Come puoi bene immaginare non ci sono miracoli o ricette precostituite per curare le tue ferite. Quello che si può fare è imparare a conoscerle, a prescindere dal tipo di ferita che ti caratterizza.

Conoscere una ferita significa iniziare a leggere ciò che sei, i tuoi pensieri emozioni e comportamenti alla luce di quella ferita e attraverso quella ferita.

Immagina di avere davanti un grande puzzle e di dover piano piano trovare i pezzi per comporre l’opera: avvicinare la propria ferita assomiglia un po’ a questo processo di ricerca e avvicinamento rispetto ad un qualcosa sul quale non hai mai riflettuto e che è sempre venuto fuori in automatico.

Conoscere la propria ferita ci permette, poi, di andarla ad inserire in un quadro più ampio, quello della nostra storia personale e delle nostre origini. Non siamo monadi staccate dall’ambiente e dalle relazioni, ma siamo anche e soprattutto il frutto delle nostre relazioni e del contesto in cui viviamo: ordinare i pezzi del puzzle significa, perciò, tentare di rintracciare dei collegamenti tra presente e passato, creare dei “ponti” che ci permettano di leggere il nostro presente alla luce del nostro passato.

Questo è un passaggio fondamentale che si fa in psicoterapia: ci permette di usare ciò che ci fa male oggi come “gancio” per ritornare all’origine delle nostre ferite e, qui, risanarle man mano.

Dopo la conoscenza, quindi, il passaggio successivo è quello dell’ascolto e dell’accoglienza: non basta conoscere la nostra storia e le nostre ferite per lenirle, bisogna davvero accoglierle dentro di noi dando loro voce.

Dare voce ad una ferita significa far parlare quella parte di te che sta male, che magari non ha avuto modo di farlo in passato e che adesso ha la possibilità di essere compresa e accolta. Dare voce alla ferita significa anche “passarle attraverso”, vivendo finalmente tutto il dolore che questa si porta dietro, per poi superarlo: come dico spesso, medicare una ferita brucia ma, una volta superato il momento, quella medicazione diventa l’unica possibilità di guarigione che abbiamo.

 

Per quanto riguarda, nello specifico, la ferita dell’Abbandono posso dirti che il lavoro della psicoterapia diventa il punto di partenza fondamentale per avvicinarla e occupartene. Ma, se non vuoi o non puoi intraprendere un percorso al momento, ti invito a riflettere su alcuni punti che ti metto qui in modo schematico.

 

  • Rintraccia nel tuo passato delle situazioni simili a quella di malessere o difficoltà che vivi adesso. Se, per esempio, rimani estremamente angosciata/o al mattino quando vedi il tuo partner andare a lavoro, fai un salto indietro e recupera la prima sensazione vagamente simile a quella che stai vivendo adesso.
  • Fai parlare la tua ferita. Nel momento in cui hai trovato quella situazione passata che ti ha suscitato degli stati d’animo simili a quelli del presente, fai parlare la parte di te del passato provando a farle dire come si è sentita, cosa stava succedendo e, soprattutto, di cosa aveva bisogno.
  • Dai voce ai tuoi bisogni più profondi. Una volta che ti sei connessa/o con la parte ferita dentro di te permettile e permettiti di dire cosa la farebbe sentire meglio, cosa potrebbe aiutarla a non sentire quel disagio.
  • Sforzati il più possibile di trovare delle cose che puoi fare tu stessa/o, che non presuppongono la presenza di altri.
  • Prova a prenderti del tempo per te. In continuazione del punto precedente, trova delle attività che ti danno sollievo, che ti fanno stare bene, che catturano il tuo interesse e la tua attenzione e inizia a dedicare un po’ di tempo ad esse. Attraverso questo, magari, potresti iniziare a ritrovare dentro di te delle qualità nascoste, delle risorse che non vedevi perché eri abituata/o ad affidarti solo ed esclusivamente agli altri.
  • Impara a fare delle cose da sola/o. Cerca il più possibile di trovare nella tua giornata dei momenti in cui fai qualcosa da sola/o, fosse anche solo fare una passeggiata o andare a comprare il pane. Non importa che tu faccia un viaggio di un mese dall’altra parte del mondo: è importante che tu “riabiliti” la capacità di stare da sola/o.
  • Inizia a fidarti della Persona che hai accanto. La maggior parte delle volte siamo gelosi in maniera esagerata o dubitiamo senza motivo di chi abbiamo accanto: proprio nei momenti di maggiore dubbio o malessere, trova una serie di “prove” concrete del fatto che la tua Persona ti vuole bene. 

Se, al contrario, ti rendi conto di circondarti di Persone che non fanno altro che alimentare la tua paura dell’abbandono perché sono instabili e inaffidabili, gira i tacchi e scappa! So che non è ne facile nè automatico, ma prova a distaccarti da questo genere di Persone perché non sono funzionali per te. Inizia, invece, ad avvicinarti a chi ti dà un senso di sicurezza e affidabilità, a chi senti che può esserci per te senza se e senza ma.

Nello stesso tempo, però, non perdere mai di vista il fatto che sei un essere unico e separato dall’altro: qui si tratta di fare un pezzo di strada insieme, non di essere presa/o sempre per mano o, peggio ancora, in braccio.

 

 

Mi rendo conto che il discorso sia molto complesso e articolato, e ho provato a condensarlo in poche pagine pur rendendomi conto di aver messo sul fuoco forse anche troppa carne.

Ti lascio due testi utili se vuoi approfondire il discorso:

- “Le 5 ferite e come guarirle”, di Lise Bourbeau.

- “Reinventa la tua vita”, di J. E. Young e J.S. Klosko.

 

 

 

 

 

 

 

 

 Un caldo benvenuto a chi è approdato per caso su questa pagina e a chi ci è arrivato di proposito, insieme ad un grosso arrivederci a chi vorrà tornare a trovarmi.